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  Sei in:    Home  *  Interviste  *  Enzo Moscato 5 Luglio 2019
  
Intervista a Enzo Moscato

A cura di Nicolantonio Napoli

Enzo Mocato - Premio Scenari Pagani 2020

Moscato è alle prese con numerosi progetti. Il più imminente è la messa in scena de La Ronda degli Ammoniti chiestagli da Ruggero Cappuccio per il Napoli Teatro Festival 2019. Per il nostro incontro gli ho detto che avrei avuto piacere di fare con lui una lunga chiacchierata informale sul suo lavoro e sulla sua vita e sulla scia di altri nostri incontri, riprendere da una precedente intervista di qualche anno fa (era il maggio 1994 e aveva appena finito la traduzione dell’Ubu Re per Ronconi), per riannodare i fili dei suoi primi 40 anni in teatro, in una sorta di piano sequenza che raccoglie i dialoghi davanti a un caffè, le chiacchierate sciolte e informali, le interviste vere e proprie.

E sa che avrei poi sistemato tutto il materiale per produrre una sola intervista dal filo conduttore unico. Talvolta ho aggiornato un pensiero, una posizione, intrecciando l’oggi col passato, altre volte ho mantenendo la datazione di alcune dichiarazioni, perché non è mutato il pensiero nonostante gli anni passati o perché rappresentano un documento straordinario di passione e verità.
Ci sediamo nel dehor di un bar situato sulla parallela di quella arteria magica che è via Toledo insieme al suo fidato amico manager Claudio Affinito.
La nostra è una ‘conoscenza’ di lunga data, cominciata sul finire degli anni ottanta grazie a Francesco Silvestri, rapsodica nel tempo, per cui le nostre chiacchierate iniziano in lentezza con un approccio timidamente formale per poi sconfinare con scioltezza, come sempre, in argomenti e temi cari a tutti e due: schegge di un unico universo ritornante che è Napoli.
La finalità del nostro incontro è duplice; l’intervista e l’organizzazione del cartellone della rassegna Scenari pagani che curo per Casa Babylon da ventiquattro anni, che ha già ospitato Enzo molte volte, lo ha premiato nel 1998 con Spiritilli e lavora per riaverlo in scena nella prossima stagione artistica con un inno al suo Ritornanti, nonostante Enzo lamenti una gamba ammaccata e qualche altro fastidioso acciacco, sirene di un corpo stupido che non si muove in sintonia con lo spirito.

D - Che rapporto hai con le foto? Perché ne ho qui una tua che conosci bene, sulla quale vorrei una tua opinione.
Enzo Mocato - Foto di Fiorenzo de Marinis

R - Bellissima. Io, Annibale, Taiuti e Orlando. Tanto tempo fa. Io le foto non le guardo volentieri… però succede a volte di rivederti attraverso la fotografia…
È una fotografia dolce e terribile insieme. Perché, mentre ridesta l’aura degli affetti, costituisce una testimonianza probante dell’autentico abisso scavatosi fra la Napoli di allora, in cui c’era il teatro (intendo il teatro vero, che cercava di aprirsi nuove strade al di là di una tradizione ormai sterile e contro l’opportunismo consumistico), e la Napoli di oggi, in cui, al posto del teatro di allora, c’è la riscoperta del conformismo nel solco dei vecchi e mai dimenticati compromessi.
Qualcuno fa un lavoro su di te e ci mette diciamo la foto di oggi come quella di 30, 40 anni fa. Adesso non ci soffro, non sono più un giovinetto. Io sono stato giovinetto per quanto riguarda la mia tenuta fisica per oltre 40 anni e ho avuto la fortuna di avere questo fisico adolescenziale per parecchi anni. L’altra sera ero a Ischia film festival e rispondevo alle domande dell’intervistatore e ho visto allo specchio alle sue spalle questa persona anziana che parlava e che ero io. Non ci devi pensare troppo. Io che faccio teatro, e quando dico teatro dico che faccio solo quello, si… ho fatto anche cinema, televisione, ma niente di cosi completo e totalizzante come il teatro che ti cattura, da quando l’ho fatto per la prima volta ricordo che facevo personaggi che non avevano la mia età anagrafica, erano molto più anziani e allora ti dici… di che mi preoccupo… ho fatto Annina di Festa al celeste e nubile santuario nell’84 che almeno sulla carta aveva i suoi 50 anni e oltre e io ne avevo molti di meno e quindi è tutto un fatto relativo. Il teatro è bello per questo, si consuma mentre lo fai.
Poi certo, si possono fare delle riprese dei lavori cinematografici che però io non vedo mai. Non li vedo perché c’è questa sorta di risucchio che puoi avere ingannevolmente perché poi un personaggio è sempre tutto interiore che io rendo molto attraverso la lingua non attraverso il corpo.
La lingua che sta a metà strada tra la mente e la somaticità. Il teatro è bello per questo perché non ti fa vedere ma ti fa immaginare. Mentre tu reciti ti puoi immaginare mentre tu fai quella cosa e puoi avere una sorta di auto fascinazione oppure puoi rifiutarti, non amarti. Io l’auto fascinazione non l’ho mai avuta, sono stato sempre molto critico rispetto a quello che facevo.

D - E rispetto alla scrittura?

R - Quello è diverso… perché quella la controllo di più. Io la scrittura non la abbandono mai. Anche se faccio un testo che ha 30 - 40 anni in realtà sulla scrittura io ci sono sempre contemporaneamente sopra, la aggiorno con l’occhio dell’oggi, la mantengo giovane. Ma fino a un certo punto, perché è una alchimia… se scritta colla forma grammaticale di allora non la puoi cambiare, è un testimone.
Cosa che non puoi fare col corpo.

D - La tua scrittura è molto moderna, è una continua invenzione, e se posso essere frivolo, non risente della tua età.

R - Si… e siccome io ho la mania dell’auto correzione, dell’auto aggiornamento la chiudo qua dentro perché certe cose vanno lasciate antiche, magari è sul contemporaneo che devi fare più correzione. Ma è una cosa che ti viene dal teatro, è una questione di tempi estremamente complessi che si incastrano nel teatro, più lavori col teatro più ti rendi conto che certe cose si incastrano per i tempi. I tempi e le sonorità che sono veramente tue…
D - E allora mi chiedo e ti chiedo: ma un testo di Moscato chi altri lo può recitare all’infuori di te stesso? Il tuo teatro è lingua, è corpo che è difficile vedere in altri.

R - Ci sono esempi, pensa ad Artaud. L’ho letto come tanti e l’ho visto in video, i documenti, le testimonianze filmiche che abbiamo che ci sono tramandati e lì il discorso è complicato perché tu non ti trovi di fronte ad una figura professionale semplice … tu hai un autore, un attore, un inventore del teatro hai un uomo che soffre mentalmente o che dicono soffra mentalmente per cui l’immediata congiuntura è con la psichiatria con l’etnopsichiatria, con l’antropologia.
Ho letto cose nuove anche recentemente, che diciamo non hanno una gran forza. Ho l’impressione che oggi rispetto a noi c’è meno desiderio di rottura, c’è meno desiderio di rompere e di ricostruire. Rispetto alla tradizione noi abbiamo avuto un momento di rottura, poi ci siamo riaccostati e l’abbiamo ricostruita alla luce delle esperienze del contemporaneo, quindi in noi è presente la tradizione, ma nel senso del tradimento necessario che ci vuole rispetto a ciò che ti ha preceduto.
Quello che invece io vedo o leggo adesso è una scrittura molto meno impegnativa dal punto di vista della dimensione che tu puoi attraversare, la scrittura che artaudianamente non rischia; il concetto di rischio, di hazard, è presente in Artaud, il teatro stesso per Artaud è un grande rischio anche se in una maniera molto composita che bisogna capire, però, ecco, ho l’impressione che tra noi e questa maniera contemporanea di scrittura che ha del conservatorismo, c’è una differenza.
Ci troviamo di fronte a un fenomeno cosmico, e diciamo che in piccolo e molto umilmente il problema in me si pone…perché per esempio una delle cose che per molti anni mi è pesata e ora non mi pesa più è stata la dimensione Napoli. Cioè io, Enzo Moscato e Napoli siamo la stessa cosa. Dimensione Napoli. Se la intendi come cosmo e sempre in divenire, da cui si può partire ritornare andare, Napoli cosmo si. Napoli città metropolitana, no. Perché è da tempo che io ho cominciato a coniugare le lingue in modo sincronico, francese, inglese, napoletano; ecco quindi che non sono più tanto classificabile come un autore locale ed è più complicato per quelle figure che sono contemporaneamente più cose.. non magari per velleità loro ma per una forza di destinalità… sono destinati ad essere multipli…

D - Ma questa molteplicità, senza di te, senza la tua voce, la tua presenza, senza quelle lingue, rischia di essere poco espressa e rappresentata.

R - Questo non sta a me giudicarlo… io certo sono un generoso… quando me li chiedono, i miei testi, le mie cose le do. Alcune cose non le ho date unicamente perché ci vivo… per esempio Compleanno me l’hanno chiesto tante volte ma non posso darlo… io ci vivo con Compleanno, da tantissimi anni ci vivo …dall’86 lo faccio.

D - Compleanno… dedicato a Annibale.

R - Sì, è tutto dedicato a lui e ti spiego anche perché. All’epoca Annibale mi chiese se volevo interpretare il personaggio di Anna in Le 5 rose di Jennifer, ma io insegnavo e non potevo andare in tournée così gli dissi di no. Poi ovviamente ho dovuto fare una scelta, tra l’insegnamento e il teatro. Alla fine ho scelto il teatro. Ora, finalmente, posso rendere il giusto omaggio ad Annibale.

D - Sono più di trent’anni da Compleanno cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale?

R - Non so…Io mi vedo sempre lo stesso… dovrebbero magari dirlo gli spettatori che ti hanno visto negli anni. Dentro di te c’è una sorta di eternità perpetua, un senso di ‘Non Tempo’. Io non avverto grandi differenze dall’86 ad oggi. Anzi più avverto la senescenza più ritorno bambino. Il consiglio che posso dare è quello di leggere, di leggere tanto. E’ il modo per andare incontro a se stressi. Io come vengo fuori…innanzi tutto come scrittore… incontrando le scritture altrui…ma non quelle presenti… ma dei padri nobili che ci hanno preceduti. Il presente noi siamo condannati a non capirlo…il passato ci può aiutare a comprendere qualche minimo brandello di nostra vita, in tutti i sensi, storico, politico, letterario… ora è inutile citare il nome di qualche classico non è questo il senso di quello che sto dicendo …ma per dire… il Faust di Goethe o di Mann io li ri-leggerei, mi prenderei il rischio, che hanno ancora tanto da trasmetterci, c’è qualcosa che ci deve arrivare ancora. Le discipline sceniche si imparano, sono tecniche, quello che invece è estremamente personale è il pensiero che tu ti devi formare intorno a quella cosa e che deve essere il più possibile tuo originale.
Non so che cosa sia cambiato in questi anni nel mio teatro e nel pensiero che ho su di esso. Forse nulla. Forse tutto, chi lo sa? Dall’interno di un processo, come capita a me di stare, se si parla di teatro, non si è sempre molto avvertiti in relazione al cambiamento. Si ha molta coscienza, invece, di ciò che si aggiunge al già fatto. Senza dubbio, in questi anni, il pensiero e il teatro nella mia ricerca sono divenuti più complessi, stratificati, non facilmente riducibili a una sola dimensione o interpretazione. Anche più elusivi, sfuggenti, incatturabili, rispetto al senso. Questo lo ritengo un dato positivo, vista la tendenza odierna a racchiudere in comode e false sigle – in prigionie concettuali – il problematico ventaglio espressivo di un fenomeno scenico o di un artista.

D - Compleanno è molto stratificato. E’ la celebrazione dell’assenza e del delirio, un esercizio quotidiano del dolore, della perdita. Ma anche una festa per ricordare le affinità elettive e i teneri ricordi che ti legano a Annibale.

R - Lì c’è contaminazione, ci sono odio e amore… non è che ogni volta che mi chiedono di fare Compleanno io esco pazzo dalla gioia, soprattutto adesso che c’ho 72 anni sul groppone. Però è talmente esemplificativo, talmente emblematico di te di quello che hai fatto, di come la pensi che non puoi sottrarti. Altre cose mie se le possono pigliare. Tanto è vero che si sono presi anche il mio testo archetipo, Scannasurice, e glielo dato.

D - Magari con un po’ di ritrosia e di resistenza.

R - Esatto. Ma magari così ci si ricorderà del mio esordio.

D - Che rapporto avevi con Annibale Ruccello? Dimmi qualcosa non hai mai detto a nessuno.

R - Tante cose non ho detto a nessuno e credo che non le dirò. Ogni tanto quasi involontariamente me ne scappa qualcuna, non una cosa proprio indicibile, ma poi mi ritraggo. Ad Annibale pensavo pochi giorni fa. Ormai sono più di 30 anni della sua morte, si sono moltiplicati i premi in suo nome le ricorrenze e non mi piace, ma so già che bisognerà andarci e faranno le solite cose che hanno fatto negli ultimi anni.
Oltretutto queste non sono cose che dico solo a te e non dico in giro, anzi è un po’ di tempo che rischio di passare per un oppositore della scrittura di Annibale, però ho avuto l'impressione, come spesso succede, che la morte, soprattutto quel tipo di morte, finisce per rendere mass-mediale tutta la situazione, fumettistica.
C'è gente che si cura di lui e invece non sa neanche dove Annibale stia di casa.

D - Fumettistico? Non sei eccessivamente duro?

R - No. Ti dirò, non ho visto in giro cose ... come dire ... lo ho visto le cose che ha fatto Annibale, che erano cose straordinarie compreso Ferdinando che mi lasciò senza fiato; un ragazzo di appena trent'anni che metteva su quel testo, in quella maniera, con quelle attrici! Neanche la ripresa che se ne fece ad essere sincero mi ha convinto. Ben che mai mi hanno convinto il film e le altre messe in scena che in questi anni si sono moltiplicate. Dico che non ho visto ancora una sua cosa messa in scena da altri che abbia avuto la forza e la dirompenza delle stesse operazioni fatte da Annibale.
Mi danno fastidio quelli che si ammantano di professionalità, di professionismo, per cui mi lascia un po' sconcertato il fatto che con facilità mettono in scena qualunque cosa.
A maggior ragione mi lascia un po' sconcertato il fatto che con facilità si mettono in scena i testi di Annibale, o i miei. Ho visto in giro molto pressappochismo e soprattutto molto non conoscere questa persona.
Ci sono autori che dal punto di vista filosofico non si limitano all’atto drammaturgico, ma rimandano sempre a qualche altra cosa, a un interrogativo, a un fondamento, si dice in filosofia. E questo l’abbiamo fatto noi giovani autori degli anni ’80. Abbiamo cercato, e anche Ruccello lo ha cercato, qualche cosa che fosse al di là del mero atto di scrittura, anche collegandoci alla nostra formazione, e anche Ruccello veniva da un suo specifico, da una formazione antropologica e filosofica. Da noi non ci si poteva aspettare la scansione drammaturgica tradizionale, ma l’atto teatrale che, come dice Artaud, deve essere qualche altra cosa. Che dovrebbe essere il punto fermo per salvarlo dall’estinzione, perché oramai, il teatro non ospita più il teatro ma altre cose. Io detesto parlare del teatro come un atto scenico punto e basta. Il teatro serve come un trampolino per qualcos’altro. Sennò rimaniamo nell’ambito di una disciplina, di un artigianato che tutti possono apprendere bene o male, ma non è di rottura per nessuno. Noi invece parliamo di trasformazione. È un altro discorso.

D - Io conobbi Annibale nell'85, al Crasc. Lì faceva il "professore".

R - Si. Mi ricordo che insegnava lì. Abbiamo fatto delle cose insieme al Crasc anni prima. Poi abbiamo fatto insieme Ragazze sole con qualche esperienza, lo facemmo nell’85, al teatro Ausonia con la regia di Mario Santella. Questo testo in particolare non mi vedrà più in scena senza di lui.
Poi facemmo una cosa che si chiamava Metropoli Tatuata, in avversione al termine ‘Nuova Drammaturgia’ che ci era stato un po’ cucito addosso e che non ci piaceva, una sorta di manifesto per il nostro lavoro che ospitava anche Orlando, Taiuti e altri, in cui io recitavo delle cose mie e lui le sue, e a un certo punto c'è un incontro scenico molto bello; dove io avevo un vestito da sposa bianco e con il quale restavo tutto il tempo.
Il vestito veniva da Festa al celeste e nubile santuario, dove facevo Annina e dove il secondo tempo è tutto in abito bianco; lui faceva un monologo tremendo, la parte della madre di Notturno di donna con ospiti e io ero sua figlia. Era una cosa agghiacciante da vedere, per il coraggio, per la "doppia fregatura" della cosa.
Ma tu mi hai chiesto Annibale com'era. Resto sempre rispetto alle cose di Annibale con una parola non detta, con un atteggiamento non preso, anche se sono uno che si è posizionato molto rispetto ad Annibale. Ho sempre detto che la sua breve e intensa scrittura doveva essere presa in considerazione e doveva avere una catalogazione critica e teatrografica molto chiara. E scoprire la persona.

D - Ma come si fa a scoprire la persona Annibale nel profondo, se poi amici come te hanno difficoltà a raccontarlo?

R - lo sono in una posizione estremamente imbarazzante; tra l'altro ne ho parlato anche con Francesco Silvestri, il quale prima di me, molto prima di me, lo ha conosciuto, c'ha lavorato, ha curato per lungo periodo Jennifer, ma sicuramente in una situazione non paritaria, mentre con me lo era.
Ma lui lo conosceva comunque molto bene. Io posso dire che con Annibale non ho mai litigato; non sono facile al litigio, ma neanche al contrario. Però penso che le cose che abbiamo fatto, le cose che ci siamo detti, le cose che abbiamo sentito, sono nate su qualcosa che non ti saprei spiegare.
A me è successo che lui aveva fatto Le cinque rose.... e nello stesso anno io ho fatto il mio primo testo che non ho mai recitato a Napoli e che si chiama Carcioffolà.

D - Prima, facendo riferimento al tuo debutto, hai ricordato Scannasurice, e mi era sembrato un po’ strano che tu lo citassi come tuo esordio, quando invece, io ricordavo fosse appunto Carcioffolà.

R - Si. Carcioffolà l’ho fatto prima di Scannasurice. Era l’inverno dell’80… ed è stato il mio primo approccio professionale col teatro, ma in realtà io insegnavo ancora, e ho insegnato storia e filosofia per altri 8 anni, poi mi sono liberato e sono diventato teatrante, per cui…. Io Carcioffolà l’ho recitato al Convento Occupato a Roma e mi pare feci anche delle repliche estive… non ricordo… è passato tanto tempo… e lo scrissi su fogli volanti, perché non pensavo che poi….
Io ho sempre avuto la velleità di essere scrittore veramente e questa cosa col tempo forse l’ho raggiunta, ma all’inizio io non ero così presuntuoso da pensare che potessi diventare un bravo scrittore di teatro.
Lo scrissi su questi fogli volanti e lo interpretai insieme a un amico mio, Piero Carosiello, che è morto da tanti anni, morì suicida purtroppo nello stesso anno di Carcioffolà, una cara creatura, e non l’ho mai più fatto, né ho mai più pensato, proprio per questo trauma che avevo avuto, di passarlo dalla mera carta volante a quella forma che faccio adesso.

D - Allora esiste?! Ne ho sentito parlare come di un testo scomparso, introvabile.

R - Esiste innanzi tutto perché è stato fatto scenicamente… era organizzato in tre situazioni sceniche. La prima era una sceneggiata, la seconda era un monologo che facevo io, la terza un'altra sceneggiata tra me e Annibale messa insieme un po’ frettolosamente…erano i primi tempi ero alle prime armi… ma abbastanza importante per capire questo autore che si affacciava e che veniva fuori un po’ sulla tradizione e che era però anche innovazione. L’ho lasciato su questi fogli protocollo che aspetta ancora di essere, come dire, riversato.

D - Come una bobina.

R - Si.. in una forma ufficiale…lo tengo come sabbia mobile… Poi c’è da chiedersi perché di tutti i testi miei solo questo… io ormai protocollo tutto… anche il respiro che faccio, perché a teatro è così… non è vero che il teatro è spontaneità… lo è solo quando tu lo pensi, tu lo calcoli, tu lo mediti, lo scrivi, lo inchiodi, e poi ti puoi permettere di essere spontaneo, quindi non è vero. Però ecco.. c’è da chiedersi perché di tutti i testi miei solo questo io non l’ho rubricato come scrittura. Avevo bisogno di questo non muro all’inizio del mio percorso artistico di questa sabbia mobile.
Ufficialmente io nasco con Scannasurice… e tutte le mie biografie sono scritte con quell’inizio, da quelli che sono i miei libri e il mio percorso a teatro… compreso questo ultimo mio libro a cui tengo moltissimo che si chiama Il Mare non si mangia edito da Guida… e dunque non l’ho rubricato ancora … forse perché scrivendolo ne farei un'altra cosa… invece io voglio che resti quello che è stato, se lo scrivo c’è l’Enzo di oggi, la mano di Enzo di oggi che chiaramente è uno che tiene 40 anni di teatro in testa. Lo falsificherei

D – D’accordo. Ma primo o poi dovrai pensare di archiviare anche questo tuo testo per una completezza, per un compimento di tutto il tuo percorso che deve esser fatto.

R - Per il momento tengo questa zona mobile davanti a me. Io comincio dalla palude. Scannasurice, Trianon, Signurì Signurì, Festa al celeste e nubile santuario … poi da allora in poi io c’ho tutta la costellazione di testi… certo qualcuno è stato più curato qualche altro meno e ti dico perché, perché a un certo punto mi hanno chiesto delle sillogi… per esempio la Ubu libri fin quanto è esistita con Franco Quadri mi ha chiesto delle raccolte… e io ho fatto per loro la Quadrilogia di Santarcangelo, Orfani veleni, l’Angelico bestiario, Occhi gettati.
Poi morto Franco la cosa si è persa e purtroppo abbiamo perso una grande casa editrice di teatro… allora lì ho dovuto pensare per il libro quindi per una forma permanente di scrittura, che cosa era stata per me la mobilità di quella esperienza lì di teatro che abbraccia 4 decenni. E qui ci sarebbe da fare un discorso sull’editoria teatrale…ma transeat.

D – Riavvolgiamo. Mi dicevi di Annibale

R - Tutti e due, abbiamo lavorato insieme a Roma al Teatro Occupato, un convento occupato che proveniva direttamente dall'Avanguardia.
Eravamo in due camere diverse, credo due spazi vicini e non ci siamo mai incontrati. Io chiedevo di lui e lui di me. Due napoletani a Roma; ci siamo incontrati quando io ho fatto Scannasurice allo Spazio Libero di Vittorio Lucariello. Io ero assolutamente sconosciuto per il teatro napoletano. Sono piombato proprio dal nulla perché facevo l'insegnante di filosofia.
Una sera mi trovai a casa di una mia amica semiologa che lavorava all'Università di Salerno, la professoressa Putino, molto appassionata delle cose che scrivevo. Mi chiese di recitare una parte di questo monologo misterico che è Scannasurice, quella sera si trovò con noi Umberto Serra allora critico del quotidiano «Il Mattino», il quale disse: senti, questo testo deve essere assolutamente messo in scena. Io domani parto con l'organizzartelo.
Io venivo da una serie di delusioni compresa quella del Teatro Nuovo. Lì ero stato portato per mano da Antonio Neiwiller, che credeva molto nella mia scrittura. Facemmo vedere uno spezzone dello spettacolo, ma non lo vollero e questa è una cosa che rimane a memoria d'uomo e che rimprovero sempre ad Angelo Montella e Iginia Di Napoli, che erano gli organizzatori del Teatro Nuovo. Serra, mi disse che visto come era andata col Nuovo avrebbe chiesto a Vittorio Lucariello di darmi la possibilità di rappresentarlo nel suo spazio.
Quindi io feci queste due sere di questo spettacolo assolutamente violento, stranissimo alla Fassbinder, tutto in napoletano, con queste atmosfere strane. Umberto che conosceva bene Annibale, che tra l’altro aveva recensito bene Le cinque rose ... gli disse di venirmi a vedere. Lui venne ma io non lo vidi. Il giorno dopo mi arrivò una sua telefonata: “Io sono Annibale Ruccello, tu forse non mi conosci, ti ho visto ieri sera una
cosa straordinaria, bellissima, ti voglio incontrare, come devo fare?”
Decidemmo di vederci il giorno dopo e lì nacque questa straordinaria atmosfera sulla base di non so cosa. Io non avevo ancora visto niente di suo, però ne avevo sentito parlare; per le cose che aveva fatto era già più noto di me. Lui andò a fiducia, sulla base di quello che aveva visto, ebbe questo coraggio enorme.
Lui mi colpì non in base a quello che era, un ragazzo nient'affatto imbarazzante, con un
gran tratto dì umanità e di entusiasmo sul cui viso non ho mai visto quello che alcuni dicono di vedere sul mio: l'ombra, la tristezza. Lui esibiva questo sorriso a 44 denti ma soffriva molto invece. Aveva a differenza mia la capacità enorme di speronare la tristezza del reale con questa sua umanità. Di là è nata la nostra amicizia.

D - Maschito! Ti ricorda qualcosa?

R - Si. Mi ricordo uno degli ultimi rave che facemmo io e Annibale che si chiamava Tatuaggio Metropolitano nel quale lui faceva le cose sue io facevo le cose mie, in questo paesino dove fummo chiamati per moneta a fare questo spettacolo che ci vedeva tutti e due en travesti, in un paese con le femmine con i panni neri in testa. 1986… un mese prima che morisse Annibale. A rischiare di essere linciati.
A Salerno al Ridotto venne una professoressa a vedere Scannasurice con la regia di Annibale e mi disse con l’animo dilacerato: ‘io la capisco questa problematica che è proprio di voi’ intendeva dire diversi, … e noi a dire ‘ma che dice questa’?
Maschito. Un’esperienza così estrema non l’ho più fatta. Ci portò un impresario di Potenza, Rocco Laboragine… pazzi, ma noi avevamo bisogno di lavorare … ma non lo farei più. Tante volte mi è venuta voglia di scrivere su di lui, su queste storie, che prima o poi scriverò un libro, di intimità, verità conosciute e sottaciute sulla diversità che era di Annibale ed è la mia, una grande diversità che è la forza della sua drammaturgia e della mia drammaturgia. Naturalmente con grande differenza di estrinsecazione.
Ma qui, come ti dicevo, si aprirebbe anche un doloroso discorso sull’editoria …

D - Apriamolo allora …che anche a me non mi pare sia molto presente.

R - Eh… non esiste proprio. E quando ti chiedono ‘me lo dai questo testo lo vorremmo pubblicare’… è successo per Festa al celeste e nubile santuario. Recentemente l’hanno voluto pubblicare, una casa editrice di Salerno e glielo dato, proprio in previsione della messa in scena che avrei fatto e ora lo si può trovare. Un testo e una raccolta, L'angelico bestiario, che non si trova più perché i libri delle edizioni Ubu non si trovano più e ho dovuto rieditarlo.
Poi è capitato che ho scritto la Carmen per Martone, si è presentata l’occasione della casa editrice e l’ho pubblicato; ma piccole cose spicciolamente. Compleanno me lo pubblicò Letizia Battaglia nell’87 a Palermo.
Tutte queste piccole case editrici che si dedicavano al teatro sono scomparse per cui adesso il teatro chi lo pubblica? Sarebbe opportuno aprire un discorso sulla editoria italiana che secondo me è pessima… Chi si fa carico del teatro oggi? Si pensa che il teatro sia l’ultima ruota del carro … si sono fatti gli stabili e si è sistemato il teatro quando poi non hanno capito che il teatro è l'Archè, è il tutto, almeno in una certa accezione, perché non puoi identificare il teatro con lo spettacolo, sono due cose diverse. Uno è una processualità l’altro è un approdo…per cui il fatto che non ci sta un’editoria legata al teatro mi sembra preoccupante, o se ci sta è piccola cosa.

D - Ma tornando ad Annibale, alla sua diversità…Tu mi lasci interdetto. Dici che la sua diversità era sottaciuta e nascosta quando poi la cosa era evidentissima. Anche lui al Crasc ce ne parlava.

R - Ma la famiglia era, se non all'oscuro, in opposizione; soprattutto col padre; con la madre, invece, aveva un rapporto molto aperto, complice, tant'è vero che l'ispiratrice delle sue cose, come l'ispiratrice delle mie è mia madre, era sua madre. La signora Pina, una figura straordinaria.
Queste sono cose di cui abbiamo sempre parlato. C'è stata sempre una spaccatura nella sua vita: da un lato la sua famiglia, figlio unico con grandi speranze, dall'altro lato la normale accettazione della sua diversità, un po' anche, se vuoi, donazione.
Su questo si tace, non si mette in evidenza questa forte componente connotativa che deriva dal Camp americano, così come ne vengo io.
Jennifer, Week End, Notturno, così come la mia Cartesiana, vengono dal Camp americano, direttamente da Tennessee Williams, da Truman Capote, da Gore Vidal; c'è tutta una cultura libertaria, omosessuale che non ha antecedenti nella cultura napoletana. Lui la vecchia cultura napoletana non ce l'ha, non gli appartiene, se non vogliamo passare attraverso quella becera del femminiello, che è tutt'altra cosa.

D - E allora Patroni Griffi? Scende giù per Toledo per esempio?

R - Patroni Griffi ha sempre sostenuto che la sua persona sociale è da tenere separata dalla sua persona individuale. La sua diversità se l'è vissuta sempre in una maniera molto discreta. E' nuova questa cosa che in noi l'aspetto personale, soggettivo, e la questione sociale della differenza, si univano per la prima volta.
Non a caso noi venivamo da un’esperienza politica, cosa che troviamo poco negli scrittori precedenti. Giustamente citavi Scende giù per Toledo. Infatti, se vogliamo pensare a un antecedente napoletano che ci ha influenzato in tal senso è sicuramente Patroni Griffi.
Ma sul piano della scrittura, del coraggio proposizionale, del protagonista che non è più il solito macho ma è un diverso, da un punto di vista politico la forza stava proprio in quello: nel dire per la prima volta il personale, cioè quello che io scrivo sono, non è una opzione astratta.
Io questo l'ho fatto sempre con determinazione anche perché a differenza di Annibale uscivo da un’esperienza politica forte: prima i movimenti studenteschi, la sinistra universitaria e poi il F.U.O.R.I.! Le prime cose che ho scritto e che sono ancora testimoniabili, sono degli articoli sul giornale ufficiale del fronte di liberazione omosessuale. Con Mario Mieli ero uno degli animatori del gruppo, una delle mascotte. Io poi mi sono laureato in filosofia e uno dei miei intendimenti era quello di non separare più il personale dal politico; e l'originalità mia, se di originalità si può parlare, è che questo tipo di educazione, di acculturazione, non propriamente italiana, ma americana e francese, la andavo ad innescare su un mio patrimonio linguistico antropologico che è stata la miscela esplosiva della mia particolarità.

D - Ma per Annibale oltre al Camp non valeva di più una cultura B-Movie, fumettistica, da telenovela?

R - In me era molto forte, in lui certamente di meno. Io ho sempre badato di più al rapporto politico diretto delle cose.
Per me il teatro, anche se faccio i salti mortali per farlo capire, è politico. Annibale si pasceva del fatto che quello che faceva era più legato a un gioco, alla tradizione. Alcune nostre controversie si reggevano proprio sul fatto che lui era uno sfegatato ammiratore di Natale in casa Cupiello.
Queste per me erano dolci favole, in realtà noi eravamo già altrove. Ad esempio, e questo nessuno lo sa, lui voleva fare una rivisitazione di Viviani dove io facevo 'O sapunariello che viene violentato da tutti e centosedici pezzenti.
Poi voleva fare Natale in casa Cupiello in un altra chiave. Io ero sempre meno d'accordo perché questa mia esperienza politica mi faceva nascondere meno.
Tu hai detto una cosa giusta. Annibale non si nascondeva. Annibale parlava di questa sua differenza perché la percepiva, la sentiva in una maniera creativa. Ma la cosa, ed è il rischio più grosso, è che Annibale sta passando del tutto anonimamente come fosse un qualunque bravo autore degli ultimi trenta-quaranta anni, senza dare uno sguardo a quel demonismo, quel maledettismo che solo io conosco e che è la sua diversità. Questo non mi sta bene. Addirittura si è pensato una volta di far fare Le cinque rose... a due donne. Quando io penso che la stessa Anna Cappelli è un omosessuale.
Ho una forma di rispetto profondo per i genitori, per la madre in particolare. Non sono mai venuti a vedere Compleanno, fotofinish di Annibale nel quale si tocca con mano la sua diversità.
Sua madre vive nel ricordo di questo figlio. Quando scriverò, se lo scriverò questo libro, dirò il grande dolore di Annibale per questa grande mancanza d'amore che c'era nell'universo. Le sue storie maledette, sbagliate, deluse, illuse; passavamo ore nei camerini a piangere sulle sue storie, sulle mie. E da qui nascevano gli spettacoli, i duetti, la voglia di divertirci.
Ti racconto un episodio a proposito di Maschito: facevamo la fame (se è per questo la facciamo ancora adesso che vinciamo i premi). La sua compagnia "Il Carro" era piena di debiti, di contributi non pagati. Lui mi chiese se potevo fare Scannasurice senza essere pagato. Io avevo la scuola e avevo questo bisogno di scappare dalle quattro ore.
Dissi di si e un giorno ci chiamarono per fare questo Duetto Metropolitano in questo paese sperduto da Dio e da tutti; Maschito appunto. Siamo andati io e lui soltanto con quella sua macchina che lui non sapeva guidare, che aveva orrore di guidare, camminava a passo d'uomo - poi vengo a sapere che è morto d'incidente d'auto - io dicevo “sbrigati che arriviamo stasera, stanotte”, e lui a dire "abbi pazienza".
Arrivammo in questo paese dove ci stavano solo le vecchie e i bambini e recitammo questo testo dove lui era vestito da mamma con un camicione lungo e degli enormi "zizzoni" ed io da sposa, a rischio di essere lapidati, trucidati.
E quando fini lo spettacolo, c'erano tutti con le facce tese e gli occhi spalancati e un vigile ci ha preso per un braccio e ci ha portati letteralmente via dal paese, come si faceva un tempo con gli scemi, con gli untori. Questo per dire che c'è tanta materia di vita da raccontare.

D - Cosa pensi di quelli che si ostinano a vedervi continuatori di Eduardo? O comunque di questa drammaturgia e di questi autori del “Dopo Eduardo" di cui si parla.

R - lo non sono mai stato d'accordo con questo "Dopo Eduardo". Sono convinto che c'è una spaccatura storica, culturale, molto netta tra noi e il precedente. Noi siamo degli orfani. La differenza di Annibale non solo sessuale ma globale, non è stata messa a fuoco ed è una delle ragioni per cui Annibale si fa in scena in cattivo modo.

D - In modo poco o troppo contemporaneo? Centrano qualcosa la tradizione e il tradimento?

R - Non direi poco contemporaneo. Io personalmente del contemporaneo faccio finta di non accorgermene. I miei sentimenti, testa e cuore sono probabilmente appartenenti a un uomo del secolo passato. Credo che la ragione sia nell’interpretazione della scrittura e dell’uomo Ruccello. I nostri testi fanno riferimento a un’umanità scomparsa però so che si rivolgono tantissimo al presente, a come siamo situati. In questo senso il nostro teatro è antico e contemporaneo. La nostalgia è un bel sentimento però se ci rimani dentro resti bloccato rispetto al futuro, devi raccogliere i semi di ciò che è stato nel mondo ma nello stesso tempo fare il sacrificio di bruciarlo per accedere ad altro.
Poi, per quanto riguarda la tradizione e il tradimento, l’ho sempre detto: tradizione non è convenzione, ma è sempre un profondo tradimento di ciò che è stato dato, anche involontario. Il teatro è un grande ossimoro, è una contraddizione vivente, l’unione di tutti i contrari. Il tradimento è implicito nell’atto stesso di fare teatro e quindi la parola tradizione la si può interpretare anche in un’altra maniera. Metti me, io provengo da una scia di drammaturghi napoletani grandissimi, Eduardo, Viviani, Petito, Patroni Griffi, però ognuno di noi è diverso dall’altro. La mia pulsione principale è stata quella di scrivere in lingua napoletana un teatro moderno, che almeno in apparenza non presentasse dei legami espliciti con la tradizione precedente. Più che risentire della tradizione dell’avanguardia o post-avanguardia novecentesca, io personalmente ho molto subito l’influsso dei francesi. Di Artaud in primo luogo, di Genet e di altri, per ragioni mie, costituzionali, di formazione culturale. Questa cifra di collegamento con la tradizione si legge però in Ruccello, era molto più forte in lui e lo confessava lui stesso che però si ispirava anche a Proust e ad altri scrittori stranieri prima ancora che ai napoletani. Per trovare un mio legame con la tradizione bisogna scavare molto a fondo, e per quel che mi riguarda è la lingua. La lingua in me è contaminata dall’influsso di altre scritture, di altre componenti culturali. E credo che questo ci appartenga come generazione. Io vengo dal ’68, siamo già molto lontani dagli anni ’50 o ’60 in cui dominava la lezione eduardiana. Poi nel tempo, il rapporto con i miei avi è stato più esplicito e più forte in me, tanto è vero che ho scritto dei testi in omaggio a questi signori che ci hanno preceduto: Passione e voce per Salvatore Di Giacomo, Tà-kài-tà per Eduardo, L’opera segreta per Annamaria Ortese.
Ma la nostra forma di scrittura è completamente diversa, è sicuramente una forma di scrittura molto più legata alla sperimentazione degli anni ’70 e poi ’80, che è all’origine di tutto il mio teatro. Ma anch’io tradisco me stesso. Io sono un’altra persona quando scrivo, però quando metto in scena i miei testi tradisco ciò che ho scritto, non sono più Enzo Moscato. Amo questo termine “tradinventare”, in altre parole operare una traduzione non letterale, metaforica, molto simbolica, anche perché poi deve aderire allo spirito napoletano, che è proprio del mio teatro.

D - Ma per quanto riguarda la traduzione sulla scena, era Annibale a tuo modo di vedere il più ‘giusto’ a mettere in scena le sue cose?

R - lo trovo che lui avesse la grande capacità di mettere in scena splendidamente Le cinque rose di Jennifer.

D - Che per te era anche il suo testo più bello?

R - No, il testo in se per se non è il più bello e il più perfetto. Io direi che il più bello è Week End. Ferdinando per esempio apre su un versante di Annibale che purtroppo non abbiamo potuto vedere. Il grande dramma, la grande fiction non era tipica di Annibale ed è strano che nello stesso periodo io ho scritto Piece Noire e lui Ferdinando che sono due saghe, non due testi teatrali. Io non ho mai più scritto cose con tanti personaggi.
Ferdinando così prolisso è come se fosse una improvvisa chiusura su una cosa e una repentina apertura su un'altra. Io trovo che drammaturgicamente sia da riconoscere assolutamente più vicino ad Annibale Week End, con tutto il Camp che c'è dentro.
Ferdinando già non è più Camp.
Se Annibale fosse vissuto, avremmo potuto vedere o non vedere il prosieguo di questa apertura, che resta come una propaggine strana. Straordinario testo come dettato sotto visione, tessera di riconoscimento del drammaturgo Annibale Ruccello.
Poi parliamoci chiaro, Don Catellino in Ferdinando si può equiparare a Jennifer.

D – Anch’io trovo Week end il testo più bello di Annibale, ma anche un testo scritto abbastanza male, soprattutto nei suoi personaggi maschili

R - Annibale come me non eccelleva nel tratteggio delle figure maschili come invece in quelle femminili e androgene. D'altronde noi siamo gli unici autori contemporanei che hanno scritto per le donne. Non si scrive più per esse. Anche la signora Danieli che è divenuta come una musa ispiratrice dei nuovi drammaturghi, voglio dire, il dirlo continuamente...

D - Ripetere da parte sua continuamente questa cosa ti ha dato un po' fastidio?
R - No. Voglio solo dire che senza di noi non avrebbe potuto fare i grandi spettacoli che poi ha fatto.

D - Fuori di polemica. Continuiamo a parlare di Week end.

R - Giusto. In Week end, non è tanto lui ma è lui proiettato nella madre. Ida è proprio sua madre, un personaggio piccolo borghese, piena di strani tic clinofobici, pieno di pulizia, di ordine, e poi dentro di se ci sono degli abissi, delle voragini.
Io la signora Pina non l'ho mai conosciuta bene, soprattutto negli ultimi tempi poi me ne sto un po' lontano. Il suo dolore mi mette un po’ in imbarazzo.
Ma lei è una gran donna come del resto mia madre. In questo tipo di scrittura, le madri trionfano. L’estrazione sociale è diversa: la mia proletaria, la sua di estrazione borghese, con tutti i limiti della provincia raddoppiati di segno. Noi invece abitavamo nei quartieri spagnoli; credo che ci abitassimo da sempre. La mia è stata l'unica famiglia che si è esiliata. Mio padre ha approfittato di un guasto in casa attorno agli anni 60. Avessi continuato a vivere nei quartieri, forse tutto questo non sarebbe accaduto.

D - Scusa se ci ritorno, se faccio un passo indietro…ma vorrei che mi dicessi qualcosa di più su questa relazione, esistente o presunta, tra la vostra drammaturgia e la grande tradizione del Padre nobile Eduardo.

R - Non sono mai stato d'accordo con questa affiliazione diretta della nostra scrittura soprattutto con Eduardo, del quale sono uno sfegatato ammiratore soprattutto di lui come attore.
Acclarato questo, tanto meno sono d’accordo con una affiliazione di tradizione tra quelle che sono le nostre figure grammaticali e retoriche di travestiti, di mutanti, di androgini, che non sono interpretabili con la cultura dei femminielli. Non c'entra niente; ho sempre avuto questa enorme onda di disturbo quando interpreto i miei monologhi che sono almeno nell'intenzione misteriosofici e profondamente legati a fatti strani di pensieri. Cartesiana fa piazza pulita dal titolo di questa linea di pensiero e io non ce l'ho mai potuto di questo rivoltarmi o accostarmi, che è la dimensione di altra gente, ma non è la mia.
D - Quando si interrompe questa continuità e quando la dimensione del femminiello raggiunge l'acme?

R - L'acme lo raggiunge con La gatta cenerentola; quello è un recupero o una riscrittura in chiave moderna di tutta la cultura straordinaria del femminiello a Napoli. Ma non c'entra niente con la nostra concezione dell'androgino in scrittura. Questi personaggi oltre a rappresentare un momento di passaggio in cui le identità fluttuano, rappresentano
la diversità della nostra città.
Siamo lontani da Pirandello, da Eduardo e persino da Patroni Griffi che ha qualche vicinanza con noi, con il personaggio Maria Callas di Persone naturali e strafottenti.
In primo luogo queste figure incerte rispecchiano se vuoi il tipo sociale, secondo perché credo che la scrittura sia continua mutazione, trasformazione. Non a caso ho fatto uno spettacolo che si chiama La psychose paranoiaque parmi les artistes dove al centro c'è l'alchimia come metafora del fare teatro.
Non è un caso che lo scrive uno che si è laureato in filosofia e formato sui testi di Jung e degli alchimisti. Per questo io mi reputo un autore / attore di teatro occasionale.
Forse uno scrittore, probabilmente. A conti fatti io dedico più tempo, più energia, più sforzo all'atto materiale dello scrivere che non alla messa in scena.
Quando metto in scena io sono e devo sentirmi libero di giocare. Mi meraviglio quando la gente viene a parlarmi di capolavoro quando quella tale cosa mi è venuta così. Dove invece getto il sangue è sulla scrittura, dove bisogna ricreare con parole di oggi il concetto di ieri.
La scrittura è l'atto stesso della mia esistenza. Credo di poter dire di me "scrivo dunque sono" ma anche “sono perciò debbo scrivere". Sognavo ininterrottamente di fare lo scrittore.

D - Tu sei nato sui quartieri e per uno che nasce sui quartieri sognare di fare lo scrittore, fare il professore di filosofia e poi teatro è un bel salto.

R - Sui quartieri c’ho vissuto fino ai 10 anni poi ci siamo trasferiti a Fuorigrotta mi sono laureato e dopo ho preso la mia strada. Negli anni ‘60 Napoli esondò, esorbitò dai quartieri, si allargò e molta gente indigena andò a Agnano, Bagnoli, Fuorigrotta, rimanendo quella popolazione lì, gli zingari di Viviani sostanzialmente. Anche questo l’ho vissuto con grande dimestichezza… non mi sono mai sentito chiuso in niente anche quando ho fatto il professore di filosofia e dovevo insegnare ai non napoletani, io mi sono sempre sentito a mio agio perché forse avevo le corde giuste per leggere il mondo in una maniera multipla come la mia città è multipla. Certo io sono un ragazzino che ha potuto fare questo salto perché ho avuto la fortuna di poter leggere. Trovare il libro, il libro valido quello che ti cambia la vita per me è stato determinante.

D - Sognarlo sui quartieri è alquanto strano?

R - Stranissimo. Infatti ci devo tornare e devo scrivere di questo. E' una cosa che mi sta allucinando. Mai come in questo periodo non ho un po' di tempo per me, tanto che mi chiedo quando verrà il momento mio.
Vengo da una famiglia che ha sospetto della cultura; poi è chiaro che anche i quartieri sono pieni dì tradizione e di umanità. Strano è che da bambino le cose che mi interessavano erano le biblioteche.
Quando in prima media sono andato via dalla mia scuola, sballottato e trapiantato dalle monache francesi di Montecalvario (i bambini del quartieri andavano dalle monache francesi perché esse davano una forte mano ai ceti popolari) timido com'ero e con la media dell'otto, spesso me ne andavo per la città a piedi da solo e per delle ore.
Poi un giorno mi sono trovato davanti alla Lucchesi Palli. Mi chiedevo cosa ci potesse essere dentro così chiusa e protetta.
Benché vietata ai minori provai più volte ad entrarci, ma solo con l'aiuto di un mio cugino riuscii ad avere Guerra e pace. In quel libro mi sono sprofondato senza capirci un accidente; forse è lì che ho sognato di scrivere. La scrittura su tutto.
Per me se ne può cadere il teatro; è soltanto un’occasione di lavoro non fondamentale per me.

D - In che modo la filosofia ha influenzato il tuo teatro?

R - Adesso, dopo tanti anni… potrei quasi dire che teatro e filosofia sono la stessa cosa per me…e cioè la dimostrazione in atto di tutto quello che ho imparato prima da studente poi da professore. D’altra parte non dico una cosa nuova… i filosofi francesi dell’ultima generazione Deleuze, Guattari, Phillip Sollers hanno molto lavorato sul binomio teatro e filosofia…. si potrebbe pensare che il teatro preso solo come mestiere, artigianato, sia meno di quel che promette… plana basso. Invece il teatro è una forma quasi metafisicale di pensiero. Chiaro che questa forma deve poi diventare atto, parola, gesto…. ma non è una cosuccia. In Italia siamo abituati a pensare al teatro come l’arte dell’improvviso, ad una maniera molto piccola di concepire il teatro, cosa che non avviene per esempio all’estero. Noi per molto tempo siamo stati abituati ad una filosofia solo speculativa…mentre altrove, in Francia per esempio il grande filosofo Derrida ha scritto anche per il teatro e rappresentato lui stesso le sue cose in scena alla Sorbona.
Il mio legame col palco si sviluppa intorno alla mia radice primaria che è Napoli, che è quello che mi serve a mio avviso per volare più in alto attraverso questa pratica multilingue e abbracciare altre dimensioni dell’essere teatro. Io non faccio teatro, io sono teatro o il teatro è me. Siamo sempre intorno a questa faccenda dell’ontologia. Cioè che le parole, il teatro nel suo totale può essere anche l’espressione laica dell’immanente. Oggi ho molta difficoltà a definire il mio teatro, a dire cosa è stato filosofia e cosa è stato teatro. Ogni tanto, dopo aver messo in scena un mio lavoro, ho l’esigenza di lasciarlo lì, osservarlo da lontano e uscirne fuori…. che è un atteggiamento molto da filosofo. Ed è anche auspicabile che questa pratica aumenti nel teatro italiano. Perché c’è un teatro e un metateatro, come c’è un linguaggio e un metalinguaggio. Ora, non so quanto di quello che sto dicendo è facile o no. Ma io credo che intorno al teatro non convenga fare discorsi facili…credo che convenga far comprendere che il teatro è una faccenda complessa, seria. Sarebbe bene avvicinarsi al teatro con un bagaglio di formazione già abbastanza consolidato. Io ho cominciato che ero già professore di liceo, e probabilmente le mie lezioni sono state ‘il mio primo essere in scena’ e i miei studenti sono stati il mio primo pubblico. Intendendo per teatro non l’istrionismo, ma esattamente l’opposto. Devi nasconderti dietro le parole, dietro la messa in scena, dietro gli attori. Non è un caso che il teatro muore dietro una iper tecnologia portata all’estremo. Il teatro è un’arte umana e al lussuoso io preferisco il francescano. Artaud diceva Il Soffio. Che è tutto non è soltanto il respiro. Dovremmo tornare a guardare ai grandi maestri che hanno fatto queste strade prima di noi che hanno aperto questi sentieri… sembra che siano stati un po’ dimenticati e invece hanno dedicato l’ esistenza a queste cose.
La scrittura è stata il bell'incontro, sognare; mi ricordo che dall'alto del parapetto di Palazzo Reale guardavo il mare. Questi sono i miei ricordi, ed è per questo che il mare si ritrova tanto nei miei testi, come del resto è fondamentale in molti altri scrittori napoletani. Da allora, ho sempre fuggito.
Ho finito di leggere in questi giorni un bellissimo libro di Anna Maria Ortese, poco conosciuto, che si chiama Il porto di Toledo, dove lei da bambina faceva le stesse cose, nomade per questa città sconosciuta e orribile con questa che era il punto di domanda.
Allargando il discorso, ancora oggi io sono in fuga anche da me stesso, dalle istituzioni, dalla stabilità, Quando mi passarono di ruolo in filosofia dissi che non era il posto che volevo. "E tu per anni che ci sei stato a fare?” mi dirai.
Sempre fuggire; ed è stata la mia vita dopo. Fuggire restando qui in questa città strana che ti permette delle linee di fuga con poco. Non sai spiegarlo ai Milanesi ai Torinesi che se ne vanno. Lo dico anche in Partitura: "città uterina e fetida che mi hai nascosto meglio di un ebreo". Questo è un grande ventre materno comodo per certi versi, ma tanto scomodo per altri.

D - Comodo e a volte troppo rassicurante.

R - Uno deve essere rassicurato. Di rassicurazioni in genere non ne abbiamo e se Napoli ti dà queste, prendile.

D - Hai dei libri che ti hanno fatto da faro, da rifermento nel tuo percorso?

R - Quando sono cresciuto io Napoli era una città piena di librerie di bancarelle di libri …era un'altra cultura e chi voleva, certo non tutti, ma chi voleva sapere altro e cercava… su quelle bancarelle trovava il suo destino, la sua fortuna.
Anche Anna Maria Ortese ha avuto lo stesso destino tutti gli scrittori napoletani nascono da una situazione di disagio che attraverso i libri hanno superato. Io rimpiango questa Napoli dei libri …e questa Napoli da cui non saprei separarmi.

D - Mi sono sempre sentito addosso un verso che tu usi in Partitura. Dulce et decorum est pro patria mori. Per me tornare è stato un atto viscerale, un atto d’amore.

R - Io ho due sorelle, adesso una ahimé, non c’è più, ma si sono sposate con dei cittadini
americani e se ne sono andate da Napoli e per me questo fatto che parte della mia famiglia se ne sia andata in America ormai 50 fa, facendo figli americani, io ho nipoti americani, mi fa pensare.

D - Sei mai stato in America?

R - Io no, ma mia madre si. E ci andò per la prima volta a 80 anni… mia madre che non si muoveva mai, sempre in casa… ha preso l’aereo e è andata due volte dalle figlie. Per cui io non ho mai sentito questo limite. Andarsene io lo capisco perché ci sono a monte delle ragioni per cui tu devi socialmente, economicamente, simbolicamente andare via; però nello stesso tempo andare via è un fatto esteriore e ce lo dimostrano le vicende di tanti scrittori che a un certo punto sentono proprio l’esigenza fisica di ritornare.
La stessa Ortese, per sue ragioni economiche, era costretta a vivere a Rapallo con la sorella handicappata, ma Napoli ce l’aveva sempre in testa. Quella è una condizione dell’anima… allora puoi stare pure a Nashville …

D - Nonostante questo tuo legame viscerale, che tu a Napoli sia stimato, apprezzato, non sento però in te un rapporto pacificato con la città.

R - Non c’è un rapporto pacificato con Napoli e i napoletani. Non c’è dal punto di vista istituzionale una condizione di serenità; direi che nessun grande napoletano sia mai stato nell’animo pacificato con la città. Eduardo, Viviani tutti in conflitto c’è sempre stato un polemos, però quella è una condizione necessaria per migliorare per farla diventare altro da sé. Anche i grandi che mi hanno preceduto, Patroni Griffi, Rosi, con cui ho avuto la fortuna di parlare, loro hanno avuto un sogno di Napoli, come io ce l‘ho, che non si deve realizzare… per cui non puoi sentirti pacificato.

D - Poco fa dicevi delle cose dalle quali sono partito anch’io. Napoli e lo stare a Napoli. Partire ma tornare… è un atto profondamente politico.

R - Per me tornare è sempre relativo. Come lo stare... andare e venire è una formula magica che ti permette di tollerare una situazione che altrimenti ti soffocherebbe. Che non tollereresti se fossi costretto a essere perennemente stabile.
Tutte le città hanno i loro problemi. Anche se tu vivessi a Parigi o a Londra prima o poi ti accorgeresti di un limite che magari non ti sta bene e che ti devi caricare… quindi una città vale l’altra e visto che c’è questa mobilità di spostamento o stai a Pagani o a Napoli o a Palermo l’importante è che qua non devi stare … devi stare e devi non stare…Io non sento una riduzione quando mi definiscono un autore Napoletano. Se Napoli la intendiamo come ne stiamo parlando adesso in una maniera cosmica come una metafora del mondo come la Londra di Shakespeare, va bene. Se la chiudi nei localismi, negli etnicismi, nelle territorialità, allora non va bene e hai davvero a che fare col teatro.

D - Non hai mai pensato di andar via?

R - Come ti dicevo io ho delle sorelle che si sono sposate con americani, ho nipoti americani. Anche mia madre che ha ottant'anni ci è andata due volte. lo non ci sono mai andato, perché per me non rappresenta ancora una linea di fuga l'America. Sono un passionale anche se non sempre. Un paio di volte ho avuto delle storie d'amore che mi hanno spinto in altre città. Mi armavo di armi e bagagli e andavo, mai però che mi ci mettessi per calcolo.
Ma poi non è vero che muovendoti da qui, diventi qualcuno altrove; o diventi qualcosa qui o niente. lo non concepisco quelli che continuano a nutrirsi di Napoli avendone prese le distanze. Ai De Crescenzo e a quelli come lui io gli impedirei di pronunciare la parola Napoli, perché noi ci facciamo un mazzo così per vivere qui, noi che abbiamo fatto le nostre scelte, per raccontarla, per sperare di cambiarla, anche se ci capita di detestare questi luoghi.
Da ragazzino ho girato tutti i luoghi di Napoli, poi mi hanno scoperto e hanno mandato l'avviso a casa e mi hanno cambiato di scuola, dalla Pasquale Scura a Santa Maria di Costantinopoli dove ero appena più tranquillo, perché la nuova compagnia mi intimidiva.
Andavo all'avventura conoscendo il sesso, gente strana, umanità. Anche rispetto ai comportamenti delle madri che oggi non fanno uscire con serenità i piccoli da casa. Io questo timore lo condivido. Non è più l'epoca nostra in cui noi eravamo in strada e c'erano gli anticorpi rispetto al reale. Io non so dirti se quello che si sente oggi succedesse anche allora, sono stato un figlio del vicolo, perciò protetto. Quando mia madre doveva andare a lavorare noi per lunghi lassi della giornata eravamo alla mercé di tutti. Ma non posso raccontarti di traumi. Le violenze della gente che si picchiava, quella si, ma era violenza psicologica una ferita rispetto alla visione del mondo, mai di violenze sessuali. Entravi in una casa ed era la tua. Era un’altra epoca, l'epoca in cui sui quartieri non era ancora arrivata la 'roba'.
I costumi non si erano imbarbariti, la gente era altra gente. Ero in giro e un signore mi seguiva, un'altra persona mi teneva gli occhi addosso, mi controllava; mi sentivo libero e protetto, seguito passo passo, dovunque fossi andato, la notizia arrivava a casa e a volte anche prima del mio rientro.

D - C'è stata una prima volta, un primo incontro, un luogo che tu hai giudicato eccezionale per la tua vita?

R - Da un certo punto della mia vita ho dovuto occuparmi di me stesso. Dagli undici anni in poi è stato un lungo interrogarsi, un lungo sbagliare.
Ancora oggi anche quando alla fine uno glorifica le proprie scelte, non so dirti se sono state scelte fino in fondo giuste. A volte come Sartre, mi dico "ma quale libertà"? Uno è condotto e determinato già; è tutto già condizionato.
Sono nato in un gran bel palazzo del settecento, sui quartieri, lindo, pinto e con un bel cortile interno. La mia famiglia era lì da generazioni, per cui ho trovato già la strada spianata dalle relazioni con i vicini, già calato in una realtà di integrazione.
Per me è stato traumatico partire da lì. Ho sempre considerato Fuorigrotta un luogo di deportazione. I primi anni non volevo starci. Scappavo e tornavo sui quartieri, dai miei Zii, alle mie amicizie.
Qui era tutta campagna. Tornavo al chiuso del vicolo, ai giochi. Lì c'erano i miei fratelli sposati giovani già con figli, tornavo agli odori. Ancora oggi alla Galleria Toledo, vengono molti del quartiere che si ricordano di me, per non parlare dei miei tanti nipoti.
Qualcuno si ricorda addirittura di come allora mi piacesse fare queste cose di teatro. Adesso non amo molto tornarci. L'organizzatrice della Galleria Toledo mi deve sempre molto pregare, la deve mettere sul ricatto morale. Ma i quartieri sono cambiati.
Faccio ancora oggi dei sogni in cui salgo per via Gilardi, per la Conciliazione, dove in ogni luogo c'è un parente, un mezzo parente o qualcuno che conosci e ti era vicino. Ricordo mio nonno che teneva un basso, un negozio, dove praticamente vendeva di tutto e dall'altro lato lo zio di mia madre che aggiustava e fabbricava "pupate".
Non è stata una famiglia felice, nel senso che io ho perso mio padre molto presto, dopo aver cambiato casa come se si fosse trattato del cambiamento di luogo. Così mia madre ha dovuto assumersi tutte le responsabilità, le privazioni erano molte.
Ricordo che per avere il primo vestitino, dovetti aspettare il dodicesimo anno di età e guardando lei alle prese con questo lavoro, antico e creativo, e questi vestiti bellissimi, appoggiati sopra il letto, io mi incantavo.

D – Cosa hai dovuto affrontare in famiglia per questa tua diversità?

R - Qui andiamo molto lontano, io credo che la scrittura sia già una forma di differenza. Propendere verso segni non propriamente materiali pura aria, che per un'altra cosa già questa è differente.

D - Mi piaceva parlarne perché l'altro giorno parlavo con un mio amico che adesso fa lo stilista di abiti da sposa… ancora adesso en travesti… che per qualche ora alla settimana fa da balia al padre affetto da demenza senile, lo stesso che negli anni ‘80 lo picchiava a sangue perché non sopportava la sua omosessualità e lo portava dallo psicologo per farlo curare. In quegli anni anche la medicina…

R - Era bloccata su posizioni arcaiche. Ma io ho fatto battaglie epocali su queste cose qua. Annibale un po’ meno perché poveretto non ci è potuto arrivare morto a 30 anni, ma tra i suoi scritti si comprende la sua posizione.
Oggi è anche più grave perché in quell’epoca lì non cerano gli strumenti per poterti creare una autocoscienza adeguata. Oggi ci sono e ci continuano ad esserci le mazzate, l’esclusione, la perversione. Certo però che tu non ti puoi fare carico di tante le cose.
Diciamo che Carcioffolà e Scannasurice sono stati anche un mezzo, grandi aperture rispetto a certi fatti e non solo ad una tradizione, a un modo di concepire il teatro e però anche dei grandi atti apologetici.
Io ho cominciato a sentire il teatro non solo come esternalizzazione ma anche come autodifesa ed è una cosa che io insegno all’attore sennò tu muori, sennò ti uccidono e questo l’ho capito molto bene.
In quegli anni lì c’erano queste formule di reazione, oggi gli spazi di combattimento mi sa che non esistono più, perché se poi tu vuoi spacciare per differenza quello che io vedo, e lo dico da una concezione derridiana della differenza che ho, che filosoficamente è stata spiegata prima dai francesi poi dagli italiani, la differenza non solo dal punto di vista sessuale, la differenza bene o male significa ‘Altro’. La risposta la deve dare un epistemologo, ammesso che esita ancora l’epistemologia; la risposta non la può dare un teatrante se pure di grande caratura verbale e drammaturgica.
Del resto anche a livello istituzionale, si è mai messo in Italia un teatro nelle mani della differenza? Ci sono mai stati Deleuze e Buattari e l’ideologia dell’anti edipo?
Gilles Deleuze e Felix Guattari. Due grandi filosofi francesi che vengono da una parte da Freud e dall’altra parte da Hussler, da tutta la fenomenologia filosofica del Novecento, che scrivono un libro che si chiama l’Anti-Edipo, scomparso dalla circolazione, in quattro volumi, ti lascio immaginare era meglio una tortura cinese, nel quale libro, gli autori parlano del desiderio come moralità e come molecolarità. Allora che cosa voglio dire, che tutto si tiene quando noi parliamo di cultura, tu mi hai pescato questo concetto a partire da un altro, da un’altra dimensione e io ti dico che l’ho ritrovato in loro perché il desiderio come moralità appartiene alle grandi collettività sociali, la società, le istituzioni, e il desiderio come molecolarità appartiene all’individuo, quindi c’è una dialettica massa-individuo dal punto di vista del desiderio che non è il bisogno, il desiderio è l’utopia, è quello che non c’è, è quello a cui devi arrivare. Non si parla più di desiderio nella nostra società, si dice va bene, siamo mal combinati, altro che contemporaneità e modernità, stiamo peggio che nel Medioevo e allora si parla di bisogno. Il bisogno nasce sempre da una negazione, non hai una cosa, quindi hai bisogno di una cosa. Si tratta di desideri materiali direbbe Marx. Il desiderio invece è una tensione, è ciò che non c’è a cui devi arrivare. E guarda caso non si parla più di desiderio nella nostra società che è un portato degli anni ‘70, gli anni di rivoluzione del movimento studentesco e di tante esperienza diverse, l’ultima volta che hanno tentato di cambiare il mondo.. dopo di che, niente più.
Allora quella lezione dell’anti edipo così dirompente, la politica del desiderio, dove desiderare è centrale, per me è fondamentale.
Non è un caso che il mio personaggio principale di Pierce noire si chiama Desiderio testo con qui vinsi il Riccione nell’85.
E io vengo da quel mondo lì un mondo per controribattere all’annullamento all’appiattimento all’omicidio perpetrato e questo mi veniva dalla lettura di tanti altri omicidiati dalla società Ginsberg, Artaud, Silvia Platt e tutti gli altri a seguire.
Il teatro è cultura non ci sta niente da fare o è cultura o non è. Poi sono cavoli tuoi come veicolare in forme espressive teatrali la cultura. Noi a teatro non dobbiamo fare i didatticismi ma la cultura è necessaria.
Ma come si fa a leggere a capire un quadro di Caravaggio se non hai parallassi culturali; poi te le devi scordare. Ma non sono fette di melone estive e io credo che la cultura sia per molti versi diventato questo, fette di melone. Per le generazioni che ho conosciuto mia nonna, mia mamma, i miei zii - ma quelli erano grandi napoletani anche nella loro ignoranza – capivano, lo andavano a vedere il teatro, i genitori li portavano … mia mamma da piccolina ha visto Viviani.

D - Prima mi dicevi ‘Vengo da una famiglia che ha sospetto della cultura’. Non so a casa tua, ma in casa mia il libro era superfluo. Ho davanti agli occhi mia madre che passava in rassegna la mia libreria stracolma, anche di ciarpame voglio dire, e con gesto largo commentava in dialetto: ‘Guarda qua, guarda… tutti soldi gettati’.

R - Anche a casa mia; mia madre non concepiva che si potessero spendere soldi per i libri, non era solo un discorso sulla prima necessità, è proprio la cultura del libro che manca. Se vuoi intraprendere una attività non redditizia, fai il libraio o l'editore. Le cose che loro percepivano in me erano mutate e represse rispetto ai miei fratelli. Avrei voluto giocare con le bambole, ma questo non andava. Poi questo gusto per il cucito che è femminile e non maschile. Rispetto alla differenza si è comportata come qualsiasi altra famiglia, reprimendo: e ne ho sofferto. Non c'era accettazione anche se ho la sensazione di avere ricevuto sempre un grosso aiuto sotterraneo da parte dì mia madre.
Io penso che una madre stranamente (cosa che percepivo anche nella madre di Annibale) sotto sotto preferisce un figlio diverso a un figlio normale, perché abissalmente il figlio diverso non se ne separa mai. Questa è una cosa che non ho mai detto ma sentito qualche volta. E' probabile. Statisticamente tutte le madri dei diversi sono molto forti; e bada bene, diversi non solo nell'accezione sessuale. Il pittore, il musicista, "o pazz", hanno sempre avuto questo forte ascendente emotivo e poi anche
una forte emotività.
Io ho avuto un rapporto molto conflittuale con mia madre. Una donna di oltre ottanta anni che ancora voleva comandare i figli. Il nostro patriarcato è soltanto di facciata.

D - Anche se erano molto sospettosi dei libri

R - Ma lì era una imposizione di regime. Si potevano leggere taluni libri anziché altri. E magari era meglio non leggere proprio però queste signore che non tenevano neanche la prima elementare, mia mamma faceva la sarta, erano persone intelligenti che capivano non solo la concettualità ma anche quando tu gli porgevi la bellezza … e non mi pare di dire cose nuove. Se noi rileggiamo le Lettere Luterane di Pasolini…

D - La mia bibbia laica, insieme a Scritti Corsari…

R - Esatto. …tutto questo lo ritroviamo. E così si spiega il mio rapporto con Pasolini, che è molto forte. Pasolini è sempre stato presente nell’immaginario di tutti noi ragazzi e poi adulti che hanno cominciato a scrivere negli anni ‘80, non solo per la grande tragedia che ha rappresentato per tutti noi il delitto, in qualche modo, il sacrificio se, vuoi, rituale di questo grande poeta della letteratura italiana, ma anche perché ci ha indicato più strade. Pasolini ci ha indicato una molteplicità di indirizzi, non è che scrive per il cinema, la saggistica, la poesia, la letteratura, Pasolini è stato anche un ideologo. Una figura prettamente novecentesca per la molteplicità di interessi che presenta, un “maestro di morale” in un’epoca falsamente moderna come quella che viviamo noi oggi.
Pasolini ha un atteggiamento molto critico rispetto alla modernità, la sedicente modernità. La modernità veramente è una trappola perché spesso noi crediamo di essere moderni affidandoci alla pura scelta di forme un attimo diverse, aliene da quella che è la tradizione, in realtà poi il pensiero è, non dico antico che è una parola nobile, ma molto stantio, è molto conservatore. Quindi questo concetto di critica della contemporaneità è presente in Pasolini come è presente poi negli autori filosofici che mi hanno molto influenzato. Con i francesi ritrovi la critica della modernità in campo filosofico oltre che in Foucault e in Derrida, in tutti i maestri del cosiddetto decostruzionismo francese, quindi è una cosa complessa per chi si affaccia sull’universo di Enzo Moscato perché immediatamente mi ricollega a Eduardo, dal punto di vista drammaturgico, dal punto di vista invece dell’impegno concettuale siamo abbastanza lontani: anche il nostro stesso teatro, tu l’hai visto, oramai esula dall’ambiente stretto, casalingo, domestico, oppure relativo alla Napoli semplicemente.
In me Napoli è una metafora, in realtà il mio sguardo è sul mondo, anche se poi uso una lingua molto forte, molto precisa, molto locale che è quella napoletana. Però questa lingua napoletana non me la invento io, viene da Basile, viene dal Seicento. E quindi questo concetto di critica è presentissimo, e mi viene dai maestri del pensiero del Novecento che ho frequentato dalla drammaturgia, dalla filosofia, dalla poesia.
Quando parlò della morte di Pasolini, Eduardo, disse – e lo disse anche Moravia, tutti e due dissero quasi la stessa cosa – che perché nasca un poeta ci vogliono secoli.
Poi vorrei dire, parliamo di Napoli e di tutta questa non cultura che c’è in questo paese. Ma vorrei vedere a Milano o a Torino dove forse è pure peggio dove c’è più la logica della performance, penso che io a Milano questo discorso non l’ avrei mai fatto non mi capirebbero proprio.
Anche mia madre difronte ai miei libri i primi tempi mi diceva lo stesso di tua madre. Ma era anche un fatto di praticità che ti aveva insegnato la vita, di soggezione. Poi si è ricreduta. Ma se non fossi arrivato a camparci col teatro …
Io ritorno sempre a Fahrenheit 451.. lì si era risolto il problema…
Ieri hanno premiato allo strega Antonio Scurati… e sono andato a informarmi, a vedere cosa aveva fatto. Tieni conto che una volta il Premio Strega si dava davvero a grandi autori … lui tra le altre cose ha scritto questo libro che si chiama M – Mussolini.
E io che sono un cultore di cose di storia, appassionato, mi sono ricordato di una cosa di Malaparte, che è stato un grandissimo scrittore saggista, tra l'altro io c’ho fatto Signurì, Signurì, e ho ritrovato questo suo libro che si chiama MUS … 60 anni fa… ora io non so… sbaglierò, ma forse qualcuno anche solo per rimandi culturali, per disquisizione intellettuale forse si doveva preoccupare di dire che c’era una connessione tra Scurati e Malaparte. Oggi uno scrive La Stoia senza sapere che c’è già un libro con quel titolo che ha scritto Elsa Morante? Magari sto esagerando.

D - Chi ti manca molto?

R - Tanti che purtroppo non ci sono più. Fabrizia Ramondino ci manca molto ma poi tanti che sono stati i miei compagni di viaggio. Di tanti altri di cui niente si sapeva e niente si sa… bhè… lì è intervenuta una voragine e se li è mangiati tutti.
La prima cosa è mettere a letto le illusioni. Ma questo si deve capire. Tu non ce l’hai mai fatta nel senso più comune e riposato del termine, perché hai fatto determinate scelte per te necessarie. Se avevi un altro carattere facevi un'altra scelta. Io non ce l’avevo e non ce l’ho.
Altra cosa è il talento. Io sono convinto che tanta gente l’ha avuto e non ha mai avuto la possibilità di metterlo in mostra. Io ho avuto la fortuna che qualche libro mi è stato pubblicato, certo non da Einaudi o da Mondadori.
C’è gente bravissima che non è riuscita mai e questo è il sommerso che è la nostra grande ricchezza. La nostra grande madre terra.

D - Con la tradizione, con il folklore ci si scontra continuamente. Tu hai fatto un Pulcinella molto diverso. Come te la sei cavata con la cultura di ritorno che continuamente ti si vuole appioppare addosso?

R - Come hai capito io prendo spunto molto dalla filosofia. Gli aspetti della realtà e della non realtà si fondono e si superano a vicenda. Non credo nei blocchi eterni. Non lo credo per le identità, le categorie umane e non lo credo per quelle culturali. Io credo che se qualcosa è vivo, che sia nuovo, che sia antico, è valido perché è vivo. Per quanto riguarda la tradizione mi sono messo a fare le cose più disparate.
Ho fatto un disco, Embargos, dove con totale faccia tosta, canto le canzoni più svenevoli del repertorio napoletano, proprio perché trovo che siano vive e portatrici di valori culturali d'epoca e umani. E’ andata tanto bene che c’ho preso gusto e ripetuto l’esperienza e col tempo ne ho inciso altri tre.
Io non ho mai pensato che la ricerca, ed io faccio teatro di ricerca, possa fare a meno dell'antico come penso che l'antico non possa mai rimanere tale o vecchio, ma debba sempre essere avvicendato come sto provando a fare con la traduzione di questo Ubu Re, un testo che ha ormai cent'anni, dove bisogna rispettare la lettera ma anche la contemporaneità. Il testo inizia con "Merde" che poi era il grido di battaglia dei futuristi, dadaisti e surrealisti. Se tu oggi irrompi con una parola del genere, che non è più contemporanea, non fa effetto.

D - Hai trovato un sostitutivo?

R - Ci sto pensando e credo si possa andare anche oltre la singola parola. Si può risolvere con un discorso di complessità, di insieme.
Non mi spaventa la questione seppur complessa; l'importante è che i collegamenti abbiano un passaggio tra dì loro, la possibilità di mutarsi tra loro; del resto io non mi invento nulla, questa è la legge della dialettica; ecco perché mi da fastidio quando pensano a Napoli in una categoria da cartolina, perché non è cosi.
E' una città in mutazione e in movimento come tutte le città degne di questo nome.

D - Mi parli della mutazione genetica che hai visto avvenire nella gente di Napoli?

R - lo credo che come tutte le dimensioni di questo fine millennio, la città, l'universo Napoli, o meglio ancora la categoria dello spirito Napoli, come tutto è soggetta ad un opera di imbarbarimento, di degradazione di involuzione; lo vedi tu stesso che quello che una volta, 25-30 anni fa, erano forti e saldi valori, oggi sono diventati disvalori. Ciò che prima era evidente, oggi non lo è più e questo succede dovunque.
Fui invitato all'Expo di Genova e vidi una città molte volte peggio di Napoli, ed è una città del nord. Ma non la fai tanto pesante. Certo una città piena di problemi.
La disoccupazione, il traffico, la microdelinquenza. Bassolino ha fatto molto bene, e ha fatto molto, anche per la cultura e il teatro, ha aperto a mondi ‘nuovi’ e alimentato tante speranze, voglio dire, poi si è perso. Oggi ha ragione chi dice che Napoli non ha bisogno di una Autority.

D - Non avrei immaginato che tu potessi parlare così in termini di politica corrente. Hai fiducia in questa giunta, credi in un cambiamento?

R - Se io e te stiamo parlando sul serio e siamo come siamo, napoletani; siamo la prova evidente che si può cambiare.

D - Non lo so. In tutti questi anni molti hanno sperato come noi eppure...

R - Anch'io mi augurerei che il teatro diventasse più potente della televisione, mi auguro che il teatro come unica forma di creatività dell'operare umano più libero del cinema e più pericoloso, sia "promosso" (che brutta parola). Come struttura educativa capillare non è mai stato considerato. Ancora oggi noi abbiamo gente che parla di teatro come forma di apprendistato banale. Ancora con la storia che bisogna respirare la polvere del palcoscenico.
Basta. Bisogna anche studiare, bisogna anche avere cultura, non più parlare del teatro così come lo faceva Scarpetta o Petito.
Se siamo d'accordo, come alcuni sono d'accordo con noi che il teatro va rivoluzionato e rivisto in una forma pedagogica creativa, allora in questo modo non può farci che bene. E' in questo senso che dico che Napoli è un problema in più, ma neanche poi tanto perché, il problema teatro è nazionale.
Noi ci dobbiamo porre il problema di chi ci succederà. In questo momento siamo circondati da mere nullità che vengono sdoganate e messe nei posti importanti, e questo è gravissimo. Allora freghiamocene dei mass media, freghiamocene della cosiddetta comunicazione ufficiale e cerchiamo una comunicazione ‘altra’ che passa attraverso l’emozione, la mente, l’incontro, puntiamo sull’emotività, sull’incontro fondamentale, quello che ti cambia la vita, e c’è molto bisogno di persone come te che si danno da fare al di là di se stessi o come me, molto modestamente, al di là di sé, del proprio operato, dei propri testi, che si danno da fare per questo, per una vita della cultura.

D - Un altro che diceva le tue stesse cose sul lamento era Gennaro Vitiello, anche lui col suo Teatro Esse non è riuscito. Le sacche di possibilità sono marginali.

R - Gennaro parlava come me di categoria dello spirito, di un'idea Hegheliana, poi della pratica. Gennaro è stato una persona traditissima da tutto e da tutti ed è stata l'unica che a Napoli ha percepito l’importanza di Annibale e di me. Non l'aveva capito nessuno. Ci ha preso e ci ha portati nel Teatro nel Garage, il mitico Teatro nel Garage a Torre del Greco. Un'altra cosa è poi parlare del teatro come pratica quotidiana, perché immediatamente ti smentisce nel senso che poi il teatro, a cominciare dalle circolari ministeriali per finire agli spiccioli imprenditori nostrani, ti tradiscono.
Io stesso sono stato invitato a "Caserta al borgo" per presentare Ritornanti dopo anni di oblio e di ostilità. Magari è una piccola apertura.

D – Non ti fa arrabbiare tutto questo?

R – Certo, mi fa fare un fegato così, vedere gente che non deve stare nei teatri importanti. Ma se vogliamo vincere dobbiamo occuparci delle cose in generale, fare astrazione, come si dice in filosofia, del dato particolare. Napoli tradisce un suo grande patrimonio, una sua grande energia, una sua grande potenzialità, che è il teatro; ed è una forma di stupidità.
Da Gino Rivieccio ai Fatebenefratelli, Napoli è ricca di proposte dì teatro, se non hai la puzza sotto al naso. Poi ci sono le cime e le cime di rapa. Però è una ricchezza della città e purtroppo non è presa in considerazione.
lo ne parlo da studioso, da scrittore, ma poi ci sono degli operatori culturali che quest'anno hanno deciso di fare casino. Fare un comitato di contrapposizione.
Non è che stiamo tutti dormendo, ma le condizioni di deterioramento che trovi a Napoli, sono le stesse che trovi in tutta Italia. Solo magari, Enzo Moscato è chiamato a Milano e non qui. Magari perché Milano ha un attimo il senso di imprenditorialità che qui manca, come non manca l'amore. Trovo il teatro più vicino alla filosofia, più vicino alla capacità di astrazione, di riflettere metafisicamente sulla vita, questo è il grande pregio del teatro, l'unica zona franca che ci è rimasta oggi.
Non è mai accaduto che una cosa sia rimasta pura; accanto a delle punte ci sono delle contaminazioni e in questo senso andrebbe guardato il teatro.

D - Trovi che tu abbia una funzione particolare nel teatro?

R - lo sono Leibniziano. Mi dico che ci deve essere un senso a perché Dio e il Demonio mi fanno rinunciare ad una cattedra in filosofia e mi fanno fare teatro. La spiegazione è che io parlo, ed è il mio unico pregio del teatro in chiave filosofica.
L'ho sempre tirato fuori da quelle che sono le manfrine quotidiane dello spettacolo da mettere su. Io posso fare lo spettacolo con le candele, perché ho in me l'idea del teatro e
tutti quelli che mi vengono a dire: - è un capolavoro - non ci azzeccano per niente.
E' l'idea del teatro che rifulge attraverso questo misero corpo. Non vedo idea del teatro in giro. Anche questi ragazzi che vanno a queste scuole; non ne ho incontrato ancora uno che fosse pervaso dal ‘fuoco sacro’. Tutti candidati all’onorevole gestione dell'azienda teatro.
Kantor diceva: ‘Io non ho bisogno di niente, vado in scena perché se c'è l'idea, la gente rimane ed è colpita.’ La rivelazione di Paolo di Tarso.
O Genet che parlava del teatro come fatto catacombale, come clandestinità, come giuramento del sangue. Tutta altra cosa. Quando mi vengono a dire: - tu non hai le folle - io dico: ma che me ne importa, non è questo il punto. E poi non è vero. Qui per fare andare uno a teatro, ti devi mettere in ginocchio.
Bisogna uscire di casa con i pericoli, con le solitudini: pagare un biglietto che onestamente è alto e scegliere te. Un miracolo.
Ma poi anche se ci fosse un solo spettatore, il teatro non è la televisione, non è un elettrodomestico. Il teatro è sulle scelte, sull'opzione. Per questo è un fatto educativo, e per questo mi augurerei che fosse insegnato nelle scuole.
Ed è più o meno quello che ho fatto io.
Io insegnavo filosofia teatrale, parlare con un bambino e fargli entrare nella zucca tutte le cose più assurde.
Ma se gliele sai raccontare, se gli dai il mito, la favola. Il teatro può essere un comizio.
Deve essere politico, perché tutto è politico. Però tu devi avere questo messaggio.
Un'altra delle ragioni per cui faccio spettacoli molto brevi è che puoi dare questa cosa per più minuti, senno è finita, si brucia l'attimo. Io prima di cominciare non avevo mai letto di teatro, ma sempre filosofia, linguistica, logica.
Poi ho cominciato a leggere Genet, Grotowski, Jarry, Artaud e quelli che hanno pensato al teatro. Perché il teatro è pensiero.
Per portare avanti il discorso c’è bisogno di geni, il teatro è andato avanti perché c’era Artaud che l’ha spostato avanti, non so se mi spiego, ci sono il teatro francese e Artaud, che poi è finito in manicomio, lì poi è una vicenda ideologica che si intreccia anche con una vicenda personale, ma il genio quasi mai lo si lascia esprimere, anzi il più delle volte proprio perché è di rottura, proprio perché il genio non è consuetudine lo si imprigiona, lo si castiga, lo si fa tacere.

D - Il tuo modo spettacolare ricorda Grotowski, il Living e anche Barba. Ti ci rivedi?

R - Si, io vengo dalla ricerca e il teatro di Barba e del Living sono dei punti di riferimento importantissimi. Anche se a volte quel tipo di cose ha generato stili e azioni senza mito.

D - Come diceva Annibale, a volte troppo muscolare.

R - Appunto; un po' privo di emozioni. Si perde il sogno.

D - E il sogno è necessario, ne abbiamo bisogno.

R - Eh, e ci deve essere… adesso si sta perdendo pure quello. Una volta c’è stato, io lo conservo ancora però secondo me così presente e così massificante come era negli anni ‘60 e ‘70 .. persino in Mario Merola, magari non così sofisticato come lo posso avere io che sono un ex professore di filosofia, ma anche in Mario si sentiva e adesso lo stiamo perdendo perché c’è l’omologazione su cui Pasolini ci è stato di grandissimo aiuto …

D - Quando parlò dei Napoletani come di una Tribù?

R - Si. Quando diceva: ‘Napoli si è salvata, si salverà’… Bhó? Io su questo ho i miei dubbi. Però lui l’ha fatto il sogno e lo ha addirittura dichiarato che Napoli era diversa, e magari lo è pure ma ora devi scavare parecchio. Prima era più evidente la diversità la differenza. Pensa. Morto Eduardo nasce prepotentemente questo nuovo teatro napoletano con grandi personalità; era evidente. Adesso se c’è qualcosa devi cercare, è un po’ sotterraneo.

D - Tu che vedi?

R - Io non vedo proprio niente. Io vedo solo arrivismo, uso della città, utilitarismo, non vedo spontaneità. Magari nella vecchiarella di 90 anni che parla con le commarelle ancora c’è qualche barlume …

D - Ma tu non avverti che la tua città, quella dei quartieri, e poi a seguire, la città teatrale, ti vuole bene, ti riconosce anche un ruolo di voce, di guida?

R - La città non può volerti bene tutta intera. Magari una parte. E ti riconosce il fatto che tu hai fatto delle scelte dei sacrifici, magari ti riconosce il fatto che tu non rompi le scatole che non vuoi diventare il sindaco di Napoli, non vuoi diventare il governatore; si vede che tu vuoi fare una cosa per cui sei stato chiamato da ‘ddio’. Allora come fanno a non volerti bene se dò così poco fastidio?

D - Infatti mi aspetterei di trovarti di più coinvolto nei fatti di teatro. Magari con qualche incarico di prestigio che ti spetterebbe quasi di diritto.

R - Ma no. Va bene così. Noi facciamo i nostri spettacoli con quel poco di pubblico che oramai ci siamo coltivati, quasi educati, avvertito, che ti viene a vedere. Lì senti che c’è proprio la passione la condivisione civile e quello ti deve bastare perché poi il teatro non può cambiare tutto, tu puoi fare il teatro più bello in città e anche il più moderno ma se non è accompagnato da tante cose in parallelo …
Se tu istituzione sei per la superficialità sei per l’effimero pure il teatro fa la stessa fine.
Ma chiudiamo questo capitolo con un Enzo Moscato poco pacificato che qualcuno può scambiare per invidia. Io non invidio nessuno ho avuto un grande dono dal padreterno che è quello della scrittura… basta … potrebbe stare meglio la città potremmo stare meglio tutti, potrebbe stare meglio il teatro, potremmo fare selezioni migliori…..

D - Con chi ce l’hai in particolare?

R - Non lo dirò nemmeno sotto tortura. No. Non ce l’ho con nessuno, tanto meno a morte. Ce l’ho contro un modo di fare di intendere, personificato. Ma la speranza ce l’ho, del resto si vede faccio spettacoli con dei bambini, li tiro sempre dentro. I bambini a contatto con questo rigore, con questo gioco del teatro possono coltivare questa coscienza, magari la stessa coscienza che è capitata a me … il libro e, più ancora dei libri di oggi, i libri del passato quelli che ci hanno fatto grandi e che sono scomparsi dalla circolazione.
Tu vai dentro una libreria e trovi pubblicata gente che non sai da dove viene da dove proviene e non trovi più un libro di Manzoni, di Dante Alighieri.
Trovi un nome innominabile che magari si è fatto 50 case di proprietà a Posillipo e non ti dice niente eppure ‘sta llà’… e non ti trovi la Ortese non ti trovi, Bernari, la Morante, Moravia, Patroni Griffi, questo è grave perché tu prima avevi una generazione che a me mi ha arricchito che mi ha fatto grande, nel senso degli interessi, nel senso di una persona aperta alla lettura, al sapere, alla conoscenza; questa è la cosa grave non è un problema di Enzo Moscato che lo rappresenti o lo rappresenti sezionalmente… fai un torto alla cultura e un torto alla città.
Ho fatto tanti laboratori sulla scrittura, sui libri. Ho fatto laboratori e seminari con l’università, con Antonia Lezza, su grandi autori di teatro di letteratura e poesia… non si è mai saputo nulla, sono come scomparsi, fantasmi. Di questo la gente non sa nulla; i giovani non sanno nulla e io lo trovo gravissimo.
Sto rifiutando di fare seminari sul teatro perché il teatro è un’arte alchemica misteriosa … il teatro lo devi fare è inutile che te lo vai a imparare attraverso l’insegnamento, lo devi fare, devi essere. Il laboratorio teatrale viene dopo che ci siamo chiariti su cosa è teatro, sennò moltiplichiamo l’equivoco. Ma questo è un altro capitolo.
D - La tua scoperta dei libri della tua vita?

R - Li scoprii da ragazzino, qua alla galleria Toledo, i primi libri che mi presero, quelli delle sorelle Bronte di cui avevo visto in televisione Cime Tempestose e io ricordo che presi il libro per vedere se era la stessa storia che avevo visto in tv. Poi li presi anche per l’esperienza pregressa che era il cinema e lì vidi quel grandissimo film di De Sica che era l’Oro di Napoli e lì trovai il romanzo, il libro di Marotta e dissi “adesso me lo leggo” e lì scoprii un grandissimo autore, poi falsificato come un autore napoletano di quartiere e non è vero perché Marotta è un grandissimo scrittore.
Il libro è stato una sorta di contaminazione, di infezione positiva che mi ha portato a leggere. Io ancora oggi se posso, occhi permettendo, la massima parte del mio tempo lo passo leggendo e un quarto soltanto faccio lavoro teatrale.
Come si fa a capire la vita se invece di leggerti Fahrenheit 451 leggi il libro di uno qualunque?

D – E un libro ha sancito l'incontro con i ‘giovani’ dei Teatri Uniti. Toni Servillo mi raccontava del vostro incontro in uno chalet per la litoranea e del pezzo omonimo che hai scritto per lui

R - Una volta per tutte questa cosa la devo chiarire.
Sia quando ho scritto Partitura, che quando ho scritto Litoranea non ho scritto per qualcuno. Diciamo che la scrittura, la visione passa attraverso me. Io non sono responsabile di quello che scrivo o almeno solo in parte. Partitura non l'ho scritta neanche per me. L'approdo, la destinazione per quanto riguarda la scrittura non c'è mai. Questa è una favola che pensa ogni tanto l'attore, per consolazione.
Anche lsa Danieli è convinta che certe cose le abbia scritte solo per lei. Ed è convinta che Annibale abbia fatto la stessa cosa.
Ma poi una persona intelligente sa che quando sei attraversato miracolosamente da una visione quel testo non è di nessuno. Posso dire questo; che Toni, sia per Partitura sia per Litoranea ha fatto da reagente. Un giorno mi ha chiamato e mi ha detto che stava pensando ad un testo scritto da me. E, parlando parlando, è venuto fuori il nostro interesse comune per la poesia e il verso di Leopardi questa nostra ignuda natura.
Da lì siamo partiti; lui pensava ad un Leopardi tipo Eduardo, e invece è venuto fuori quello che sai, dove c'entrava poco Leopardi e molto i fatti miei, e il corpo reagente stava lì.
Litoranea invece è nata perché volevano pubblicare un libro di poesie. ( Il libro che è stato l’occasione di incontro con Teatri Uniti come dicevi tu.) Mi chiesero di usare alcuni brani da Partitura e io dissi che era possibile che scrivessi qualcosa di originale, e siccome sono stato sempre attraversato, ispirato dal mare, ho scritto Litoranea, che ha come sottotitolo, Anamnesi Marine.
Poi gli attori se ne impadroniscono, ma in realtà la scrittura non rispetta neanche te. Un testo per molti irrappresentabile, difficile, pazzesco, contorto e tortuoso.
Quando scrissi Cartesiana, Annibale mi disse che ero impazzito, che quella cosa non si poteva assolutamente mettere in scena. Poi gli feci vedere se era possibile o no. E manco a dirlo si fece un mondo di risate.
Lì bastava solo fare una specie di prontuario ritmico.

D - Che ruolo gioca la femminilità a teatro e in particolare nel teatro napoletano?

R - Lo dico a mio modo senza mettere punti definitivi in occasione dello spettacolo Patria puttana all'Arena del Sole di Bologna Teatri. Nel mio universo espressivo, le puttane – le cosiddette ‘donne di piacere’– sono forse le figure più emblematiche e centrali.
Dalla Signora di Pièce noire all’Assunta di Bordello di mare con città, dalle ‘omologate nel mestiere’ Lulù 1, Lulù 2, Lulù 3 di Trianòn alla stessa Luparella o a Bolero Film e Grand Hotel di Ragazze sole con qualche esperienza, le puttane hanno rappresentato tutte un punto fermo e privilegiato nel dare voce e corpo al concetto/prassi di una scena tesa a smascherare – con malinconia ma anche con tanta ilarità – la presunta insufficienza e marginalità di ciò che viene detto ‘il femminile’.
Soprattutto quello ferito, venduto, comprato, mercificato, ingannato e mistificato da una storia gestita da millenni, in assoluto, dal maschile.
Patria Puttana è una piccola ma significativa silloge di questa inclinazione. Un rapsodico ma profondo omaggio a quella sorta di casa, territorio, comune luogo di giacenza e resistenza che ritengo di dividere e con-dividere con la Donna e con la Prostituta, intesa come ‘cantore della differenza’.
Nel teatro occidentale gli archetipi maschile / femminile sono predominanti. Altra cosa sono i teatri orientali… nella seconda metà del novecento è venuto fuori il neutro: maschile o femminile, o né maschile né femminile, o ancora et-et In Italia abbiamo avuto dei grandissimi… Paolo Poli per esempio… a Napoli almeno nei primi tempi la Gatta Cenerentola con De Simone, non so con quanta consapevolezza, però molto interessante…. delle icone.
Io da ragazzo ho avuto la possibilità di vedere il grande Lindsay Kemp … l’immagine archetipale della fusione dei sessi… ma è triste relegare l’espressività dentro un genere. Sara Bernard sognava di uscire dalle caselle assegnate dei ruoli maschili e femminili, sognava la fusione dei contrari.
Un Re Lear al femminile per me non sarebbe uno scandalo.
Meglio fare un discorso filosofico sull’alterità, sulla molteplicità, che la semplice registrazione del dato, che non fa bene a nessuno. Per fortuna il teatro era e potrebbe essere ancora un'altra cosa. Auguriamoci che non muoia
Come potrebbe sennò sopravvivere, la maggior parte dei teatri senza sovvenzioni senza niente, pochi, la lirica per esempio con un mucchio di soldi per reiterare all’infinito lo stesso spettacolo cambiando gli attori, il regista, la messa in scena, per un evento che non serve a niente se non a far sopravvivere la tradizione e a dar da mangiare a chi lo fa.
Abbiamo bisogno di missionari; come ne ha bisogno la chiesa così ne ha bisogno i teatro. Finché ci saranno i missionari posseduti da una forma di Vocatio, una interpellanza divina e demoniaca andremo avanti…. Il teatro è un fatto sacerdotale in cui sono più le croci che devi portare che le soddisfazioni. Fatta così è una professione che non mi sentirei di consigliare a nessuno ammenoché qualcuno non si senta dentro una grossa quantità di masochismo, e allora…
E in più c’è l’oblìo progressivo… come per i grandi citati poco fa, anche questo mio lavoro fatto in 40 anni chissà chi lo ricorderà domani.
Uno deve fare ciò che è. Siamo sempre sull’essere. Ciò che è chiamato a fare, della propria impronta. L’augurio è che ci siano sempre più giovani a donare la vita per questa cosa bellissima che è il teatro, che ha un pubblico vivo davanti che ti può picchiare, fischiare, uccidere. Altro che virtualità… Ricordate Neshville.
È le danger, il pericolo, il rischio; rischio in tutti i sensi, anche fisico. E’ come una partita di pallone, si può avere una invasione di campo e si passa dal gioco alla carneficina. Che fai? Fai recitare gli attori dietro una teca di vetro? E comunque questo succederebbe solo se tu facessi una provocazione molto forte che non ha niente a che vedere col pruriginoso, con lo scandalistico, con la provocazione ontologica, con la ferita profonda. Il teatro può essere anche molto pudico e vestito, e essere eversivo.

D - Tu sapevi che, almeno per la storia, tu e i Teatri Uniti eravate l'uno opposto dell'altro. Com’è stato possibile conciliarvi?

R - Tutto parte dall'intelligenza delle persone. Mi ricordo che quando feci Scannasurice,
i primi tempi che mi esibivo a teatro, ebbi occasione di conoscere Martone. Fummo entrambi invitati ad una trasmissione televisiva.
Lui allora faceva Tango Glaciale io sapevo cosa faceva lui, lui cosa facevo io. Operavamo su fronti totalmente opposti. Aiutata dalla critica questa spaccatura, perché c'era chi parteggiava per l'uno o per l'altro, tipo Guelfi e Ghibellini. Le persone intelligenti alla fine badano alla sostanza delle cose.
Ci fummo subito molto simpatici, di una simpatia fisica e di primo acchito. Ogni qualvolta ci incontravamo, parlavamo dei nostri progetti e ci riproponevamo di fare delle cose assieme.
Poi il tempo ha fatto il resto. Il tempo, devo dire, aiutato e gestito da A. Neiwiller. Dal momento che Antonio è entrato nei Teatri Uniti ha portato al suo interno un modo e una impronta di fare teatro che a parte qualche sito era uguale alla mia.
Antonio era un asceta del teatro, un mistico del teatro, una persona straordinaria. Un altro incontro della mia vita voluto da Dio e, chissà perché, ripreso da Dio.
Mario mi disse di avere un testo per le mani che era l' Orfeo di Cocteau. Mi ci vedeva e cominciammo a parlare sul progetto. Poi la cosa non andò, e dopo quella ci furono altre occasioni mancate. Ci chiesero di gestire insieme la ‘Notte di Ercolano’, duemila anni dall'eruzione. Neanche in quella occasione se ne fece niente.
Ogni volta che Mario tornava a Napoli, mi chiamava e andavamo a prendere un caffè assieme, e un giorno mi disse che gli avevano offerto l'occasione di presentare uno spettacolo al teatro Valle di Roma.
lo avevo già dei frammenti pronti che erano già pubblicati a cura di Oreste Zerola in un opuscoletto con dei suoi disegni e messo dentro un astuccio tanto che anziché un libro sembrava un rasoio. E così nacque Rasoi

D - Vi siete accorti subito che stavate per dare vita ad un evento?

R - Questo lo hanno detto i critici, poi, e tu adesso. Certo sin dalle prove ci rendemmo conto che questa fusione di due tronconi della ricerca, fino a quel momento separati, stava dando un frutto maturo.

D - Perché ti hanno messo proprio davanti al sipario?

R - Innanzitutto davanti al sipario ero il poeta/cantore che già avevamo costruito per l'Orfeo nell'87. Poi Mario vedeva in me quello che ne è uscito, una creatura un poco strana, giusta per quello che ci serviva. Le parole che dico all'inizio e alla fine sono di Cocteau.

D - L'idea di quel sipario di chi è? Io l'ho trovata straordinaria nel suo significato.

R - E' di Mario, ma io ho trovato bella tutta l'idea registica. Poi l'apporto di Toni nella costruzione di alcuni monologhi è stato determinante. Rasoi ormai è letteratura.
Con esso abbiamo girato mezza Europa e molto di più. Poi con Toni avevamo in mente di fare il Macbeth, non se ne fece nulla, peccato. Con Mario ho girato un film tratto da Spiritilli, poi ho fatto per Santarcangelo Mald'Hamlè… tante altre cose…così…

D - Qualche anno fa tu, De Rosa, Martone, Carpentieri, foste chiamati alla direzione artistica del teatro Mercadante. Poi più nulla. Di quella esperienza cosa conservi.
R - Fummo chiamati ad una gestione pluralistica. Ora si è sempre più dogmatici. Tu hai fatto delle battaglie delle lotte perché la cosa pubblica fosse trasparente e plurale e invece vedi che si è andato sempre più verso la monopolizzazione delle cose e quindi non si vede più quella linea che avevamo provato a tracciare. Quello è stato l’ultimo barlume di un comitato artistico .

D - Con chi sei rimasto in contatto VERO?

R - L'altro giorno ho presentato il libro di Mario Martone e con molto piacere abbiamo fatto la Carmen insieme. Con altri meno. Con qualche attore…

D - Tu sei stato molto amico di un altro grande che abbiamo citato prima, anche lui molto tradito e che se ne andato troppo presto.

R - Antonio Neiwiller?

D - Esatto

R – Quello è un altro discorso. Io sono ancora vivente sono un essere indipendente, godo della mia liberta. Antonio è stato ucciso e tradito indipendentemente dalla sua malattia.
Io sono fortunato da questo punto di vista perché ho saputo tutelarmi, io se scrivo ancora e scrivo nella maniera in cui scrivo è perché mi sono saputo tutelare, mi sono messo in una dimensione di inarrivabilità rispetto al potere e questo mi ha salvato; certamente non vivo come un nababbo, non tengo le ville a Positano, non faccio gli eventi che mi fanno diventare milionario …
Quello che mi addolora è che tutto questo “desiderio di nuovo” che c’era stato negli anni ‘80 di cui lui era un precursore e grande interprete è scomparso. Ma è un grande abbaglio. Del resto, io sono convinto che il teatro morirà, se non è già morto, perché è scavalcato da una dimensione folle di altro genere; è un grande problema anche dal punto di vista pedagogico perché quando arrivano i giovani attori che cosa vai a raccontare loro? La solita palla che avranno successo?
Oppure li metti davanti alla nuda realtà: questa è la situazione e dunque bisogna diventare resistenti, fare una guerra civile a quel che sta succedendo. Come quando l’Italia si trovava ad affrontare i nazisti in casa propria e anche il più pacifico dei cittadini dovette diventare partigiano. Io ho un’idea molto partigiana dl teatro. Per me il teatro è una cosa seria, che va al di là dell’elemento recitativo.
Il teatro è un grande viaggio pieno di contraddizioni, di polarità, che dunque ti permette di mutare e di rimanere identici allo stesso tempo. Io ho fatto anche cose tanto diverse, se consideri anche la prima parte della mia drammaturgia, molto più vicina alla corrente del tempo, poi invece mi sono allontanato, concentrandomi su alcuni poeti, su delle personalità geniali della cultura in generale.
Il teatro è un arte sacrificante. Però per me scrivere è stata la ragione di vita, la salvezza di me stesso, scrivo indipendentemente dal fatto che quel testo possa essere pubblicato o messo in scena, io scrivo per stare meglio. Poi se posso condividere con altri è meglio. Mi arrabbio quando vedo che gli altri non concepiscono la scrittura come un atto di cultura; io continuo ancora a leggere moltissimo, tu diventi scrittore quando cominci ad ammirare e a conoscere altri grandi scrittori come Jack London, Musil, Hawthorne, anche i grandi scrittori italiani, napoletani, Carlo Bernari, lo stesso Patroni Griffi. Quando mi trovo con i ragazzi li invito sempre a leggere i grandi, Gogol, Tolstoj, e solo poi anche i nuovi scrittori. Tutti scrivono ma quanti hanno consapevolezza di ciò che fanno? La prima cosa che chiedo sempre a chi comincia ora a scrivere o a fare l’attore è: “sei pronto a sacrificarti? Senno fai un'altra cosa”.
Io ho una concezione che sfocia nel rigore, questo si, mi avvicina a Eduardo. Dal punto di vista della lezione etica c’è un atteggiamento molto morale rispetto alla fruizione del teatro che mi fa guardare ad Eduardo sotto un’altra luce, una lezione severa, la sua, mette quasi in campo una serie di divieti per accedere al teatro, a cominciare dalla formazione dell’attore che era straordinaria, che era molto drastica, molto dura.
Non è che si può fare teatro come lo fanno in moltissimi che è un fare la zazzuela, quello è uno stare in mezzo, magari anche pieno di inconsapevolezza, ma è uno starci in modo impiegatizio.
Tutti gli attori che hanno lavorato con Eduardo questo ci dicono. Adesso tu vedi che invece a teatro è sufficiente fare due gradini e tutti salgono sul palco. Anche le scuole di recitazione, le accademie, gli istituti, cambiano se ci sono le persone giuste che le fanno cambiare all’interno, ma se tu hai una serie di burocrati che meccanicamente ripetono quello che hanno appreso, allora il discorso resta lì. C’è bisogno di una formazione e poi di una trasformazione, insegnare in un altro modo potrebbe avere un suo valore. Invece oggi che succede? Il primo anno nelle accademie ti fanno fare delle cosettine, impostazione della voce, un po’ di lavoro sulla pronuncia, e poi l’anno dopo i ragazzi vanno a fare i provini per il cinema o la televisione perché si sono già stufati di una cosa noiosa e così arida che è il teatro. C’è poco da fare: tu il teatro lo devi fare in assoluto.
C’è più Artaud in una vasciaiola che in molti di questi che occupano i teatri pubblici.
Invece il teatro è un’esplorazione continua, perché che cosa ti chiede il teatro? Il teatro
ti chiede di cambiare sempre vita, di commutare continuamente la tua vita, il teatro ti chiede una schizofrenia continua.
Se tu consideri chi sono adesso in Italia i direttori dei teatri, tu vedi tutti burocrati che ‘pazzeano’ col teatro, tutta gente che, o non ha niente a che fare con il teatro, oppure hanno con la cosa teatro un rapporto anomalo, malato, non sono creature di teatro.
Noi facciamo un lavoro peregrino sacrificato rigoroso loro fanno un lavoro protetto. E per quanto riguarda le direzioni artistiche ci troviamo davanti a dei funzionari.

D - Senti. Mi dici di questa Spoon river napoletana, che ho letto è stata a lungo nei suoi pensieri prima di portarla in scena?

R - Avevo iniziato a pensare a quello che poi è diventato Raccogliere e bruciare già nel ’95. Avevo iniziato a lavorarci sopra ma poi arrivarono altri progetti e lo misi di canto. L’anno scorso, prima di queste repliche al Teatro Bellini, siamo riusciti a presentarlo al Napoli Teatro Festival, ma con tutte le difficoltà che comporta avere 22 attori sempre in scena difficilmente la potrò rappresentare ancora. Però ho voluto tanto farlo perché concepisco il teatro come una sorta di rito comunitario, una mensa a cui tutti devono sedersi, bere, mangiare. E difatti in questo caso si sono seduti a fianco a me attori con cui lavoro da più di trent’anni come Benedetto Casillo, Cristina Donadio, Vincenza Modica, poi elementi nuovi che approdano per la prima volta nel mio universo e infine i bambini, le future leve, sperando di poterli guardare…

D - E i tuoi amici?

R - I miei amici sono soprattutto i libri, poi i miei nipoti, che sono miei amici veramente con cui gioco, ci sfottiamo. Giuseppe il figlio di Claudio (Affinito, manager della Compagnia Enzo Moscato, ndr.) che sono stati un po’ la somatizzazione della nostra compagnia. Ora sono impegnati anche in altre cose fuori da noi, ma è normale che sia così, oggi è difficile. Quando noi due abbiamo fatto questa scelta di campo dedicandoci esclusivamente alla compagnia lasciando i nostri rispettivi lavori, allora si poteva fare, abbiamo campato, sopravvissuto. Oggi non sarei così sicuro che si potrebbe fare.
Poi c'è il teatro; certe volte lo amo, alcune lo odio, ma comunque è una grande consolazione, perché in una vita come questa, dove ci si può dire più liberi, in una vita che ti permette poco di dire come la pensi, come puoi esprimerti, il teatro è il luogo di un urlo.
Ma tu pensi che sia tanto lontano quello che succede nella nostra realtà di oggi da quello che succede nel teatro adesso? Vedi che le cose sono collegate. Anche noi non veniamo salvati dalla marea dell’opportunismo, del politicume, dell’affarismo, e sicuramente dalla morte della cultura da parte dello spettatore. Questo è poco ma sicuro. Non ci resta che fare gli eroi, ma sicuramente c’è anche l’istinto di autoconservazione, ogni tanto, ti devi pure salvare. Per me, essermi incontrato con il teatro è stata una fortuna, perché mi ha salvato da tanti disastri, psicologici, emotivi che ho potuto evitare, perché il teatro è un grande sanatorio, di personalità potenzialmente borderline, anche se come artista mi ritengo un po’ frustrato perché tante potenzialità ti vengono tarpate dall’istituzione.
Il senso di insofferenza che ho verso il teatro è per il rito mondano che non mi piace proprio. Per me è importante il luogo, dove dico delle cose, e credo che gli spettatori abbiamo cominciato a capire.
Da un po' di tempo ho una strana sensazione che quando entro in scena, mi si aspetta, perché è il momento che anche l'altro deve dire insieme a te. Ma devi sempre combattere con il territorio, perché nonostante tutto e nonostante gli anni facciamo sempre fatica a fare alcuni testi considerati più difficili, violenti, nello spirito più che nella sostanza. Le motivazioni sono sempre le stesse, che la piazza non è preparata e non percepirebbe, ecc.

D - Ma come, chiamano te e vogliono uno spettacolo morbido? E' il discorso che facevamo prima sulle arrabbiature.

R - Infatti. E mi è capitato spesso. Una volta a Caserta non vollero Mald'Hamlè. Se pensi che poi il giorno dopo ci sarebbe stato Carmelo Bene con i Canti di Giacomo Leopardi mi sono arrabbiato due volte. Allora un po' triste feci questa Cartesiana che cresceva mano a mano che mi calmavo dall'arrabbiatura, che sono certo la gente ha respirato con me e alla fine non ce la faceva più dalle risate a crepapelle. Ho l'impressione che ormai la gente sappia quando tu entri in scena che è anche il loro momento di entrare in scena; e questa è una grande consolazione.

D – Fa molta rabbia. Ti devi vestire di un buon senso adulto e dissimulare i fermenti giovanili che ribollono dentro. Da giovani incendiari da grandi pompieri?

R – Non direi proprio cosi. Tant’è che noi siamo stati sempre liberi di fare ciò che volevamo. Solo che oggi ci sono dei ricatti molto più forti. Infatti io ai giovai della mia compagnia ho consigliato di guardare prima alla carriera scolastica di laurearsi guardarsi attorno crearsi delle alternative dei piani B e poi il teatro. Giuseppe che sta a Parigi… bhè… lì è tutta un’altra cosa. Lì chi ha maturato 100 giornate lavorative è come una sorta di reddito di cittadinanza mentre qua hai voglia di girare con il curriculum per provini … devi stare con la mano tesa a chiedere come in chiesa.

D - Non mi piacerebbe però che il tuo teatro diventasse consolatorio.

R - Sai, ormai Cartesiana è letteratura. Mi giunge notizia che alcuni la recitano alle feste, ai compleanni. Il problema è farla uscire dalla letteratura, farla diventare ancora una volta palpito recitante, vita.
C'è l'ho messa tutta e credo di esserci riuscito, sono sicuro che sul nuovo io do sempre bastonate, sul vecchio ci si consola; d'altronde anch'io ho bisogno di essere consolato.
Per il resto negli ultimi tempi la vita ristagna un po’, il teatro brucia. E come se tu auto collocandoti o comunque essendo collocato in una zona dell'immaginario, lontano da te, è come se la gente avesse delle difficoltà a stabilire rapporti reali con te.
Ma per qualsiasi cosa, anche per un caffè, per una passeggiata. Tutto diventa difficile. Molte persone credono che io sia distante, sprucido.
lo sono solo una persona che si deve proteggere.

Napoli 5 luglio 2019

Nicolantonio NAPOLI
Tesi di laurea in
LETTERATURA TEATRALE ITALIANA
Relatrice
Prof.ssa Giuseppina SCOGNAMIGLIO
Correlatore
Prof. Francesco COTTICELLI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II

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